Caro «New York Times»,
mi rincresce dirlo, ma stavolta hai fatto uno scivolone. La settimana scorsa, nella Op-ed on line, edizione aperta a contributi esterni di cui però controlli i contenuti, hai pubblicato l’articolo di una giornalista italiana intitolato «Il fallimento del femminismo italiano» e in cui si parla di come in Italia è stata trattata Asia Argento dopo che ha denunciato le molestie e violenze subite da Weinstein.

Il pezzo è talmente superficiale che chiamerò l’autrice solo con le iniziali, G.S., un po’ per non farle pubblicità, un po’ perché il punto centrale di tutta questa faccenda sono i contenuti che tu hai avallato pubblicandoli.

Essendo l’Op-ed uno spazio dedicato alle opinioni, si potrebbe obiettare che ognuno è libero di pensare e dire quello che vuole, ma un conto è farlo al bar sport o a una cena fra amici, un altro è pubblicarlo sotto il nome di una testata autorevole come sei tu.

Dopo una cavalcata fra luoghi comuni e informazioni non corrette (siamo ancora un paese maschilista e sessista che assolve le vittime di violenza solo se si immolano come Santa Maria Goretti, non esiste nessun quotidiano diretto da donne o che dia spazio a editorialiste) si dice che la Argento è stata attaccata soprattutto dalle donne sui social media (ndr: il manifesto è diretto da una donna ospita diverse editorialiste in prima pagina).

Questo dimostrerebbe il fallimento del femminismo italiano che viene presentato come una cricca di fanatiche che si battono solo per gli interessi dei loro amici e non di chi soffre davvero, proprio come fa la mafia con il suo entourage.

Ora, io capisco che negli Usa abbiate un po’ di pregiudizi sulle vicende italiane, ma veder paragonata la mafia al femminismo avrebbe dovuto farvi alzare le antenne.

La risposta migliore a una tale lettura l’ha data Asia Argento in persona che, invece di rallegrarsi di cotanta difesa, ha subito reagito con un post che dice: «Mi dispiace, ma avete scelto la giornalista sbagliata per parlare di fallimento del femminismo italiano».

https://twitter.com/AsiaArgento/status/924059760537763840

E a conferma delle sue parole ha mostrato alcuni tweet che G.S. in persona aveva postato nell’ultimo mese a proposito di Weinstein e delle sue vittime.

Eccone alcuni: «Sogno un pezzo su Weinstein di una sola riga: quello sarà un vecchio porco, ma voi gliela tiravate con la fionda, finché pensavate servisse». «Ma proviamo per un attimo a metterci nella fragile psiche di chi ha bisogno di rimarcarci: ’guardate che ci hanno provato pure con me’».

Ancora:«Non so come dirvelo ma il sottotesto ’D’altra parte sapeste che bel culo che ho, ogni volta che rievocate le vostre molestie si nota moltissimo».

Insomma, vien fuori che colei che sul vostro giornale ha accusato le donne italiane di essere state le peggiori accusatrici di Argento e le femministe italiane di agire con modalità mafiosa, nelle stesse ore e giorni si dava un gran daffare per dire, sui social network, che le attrici molestate da Weistein erano loro complici, che chi denuncia ha una mente labile, oppure che il loro vero intento era far sapere che hanno un bel culo.

A questo punto, caro «NYTimes,» ti facciamo la stessa domanda che ti ha rivolto Asia Argento, ovvero: come può parlare di fallimento del femminismo italiano una persona che ha scritto questo genere di tweet?

Aggiungiamo una richiesta.

La prossima volta, prima di scrivere qualcosa sull’argomento venite a trovare i gruppi, le associazioni, le librerie, i circoli che ogni giorno e da anni fanno politica delle donne qui da noi, parlate con chi il femminismo lo conosce, lo pratica, ne scrive, ne discute.

Detto ciò, se G.S. volesse conoscere meglio e da vicino il femminismo connazionale, troverebbe molte porte aperte.