Erminia, in Un giorno e mezzo di Fabrizia Ramondino, dice che da bambina vedeva Napoli da un balcone di Capodimonte come un prezioso tappeto intessuto di fili rossi, gialli, verdi, rosa, viola. «Il blu si confondeva tra tanto cielo e mare; aveva cercato invano fra gli azzurri e i violetti, puntando il dito fra di essi come ad aprire una fessura che lasciasse trasparire il misterioso colore». Certo, l’indaco – un’«invenzione» di Newton – è il più misterioso di tutti, ma i colori tutti sono un mistero. Secondo Wittgenstein, «ci inducono a filosofare» e se la filosofia consiste nel porre domande più che nel dare risposte, ha molto da dire sul colore proprio perché non può asserire nulla di definitivo su di esso.
Non è un caso che siano due saggi filosofici ad aprire e chiudere la raccolta di scritti che compongono il polifonico volume Il colore nell’arte, uscito per Jaca Book (pp. 260, euro 50). Gli autori sono studiosi di diversa formazione e campo di indagine: antropologi, archeologi, sinologi, storici dell’arte e – appunto – filosofi.
Un affascinante mosaico di prospettive illuminate dal colore: dall’oro di Bisanzio, immersione nel trascendente, paradigma del rapporto tra luce e pigmenti, tra materia e simbolo, al turchese/blu dell’Islam, all’incredibile diversificazione di nomi e sfumature del mondo cinese che codifica anche le parti del mondo in base ai cromatismi, alla semplicità solo apparente del colore africano. Dalla predilezione per il colore smaltato, per la levigatezza delle superfici della pittura quattrocentesca nelle sue declinazioni italiane e fiamminghe, al ragionamento sulla sua rarefazione, dal rigore del monocromo alla radicalità dell’assenza nell’arte contemporanea.

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PER PLATONE il colore è da condannare, un orpello, un belletto. Solo il bianco puro è bello, come ribadisce Kant, per il quale gli altri colori non sono che un’«esca dell’attrattiva sensibile».
Ma, con buona pace di Platone e Kant, sul colore si continua a indagare.
Sul versante scientifico un filo rosso che parte dagli studi ottocenteschi sui colori complementari e il loro rapporto con la luce (Goethe e Chevreul) e arriva agli anni Cinquanta del Novecento chiarisce che il fenomeno del colore non è assoluto ma è determinato dalle lunghezze d’onda della luce, locale e circostante. Insomma un’epifania impermanente, legata alla durata nel tempo di ciò che osserviamo e per ciò stesso variabile, non fissa, instabile.
Anche sul versante simbolico c’è ben poco di fisso. L’Africa per l’immaginario occidentale è divisa tra due poli, «tenebre e incontinenza cromatica» che però non hanno nulla a che vedere con la realtà quale gli antropologi sono venuti via via comprendendo. Non ci sono termini che definiscano i colori (un esempio tra tutti, i Fon del Benin per definire quello che per noi è giallo dicono «grasso di pollo»). I tre colori più ricorrenti, il bianco, il nero, il rosso sono legati all’esperienza corporea; i loro caratteri simbolici, però, non sono univoci: il bianco può essere legato alla freschezza, al latte, ma anche alla morte. Per gli Yoruba del Niger si aggiunge il blu indaco, come punto di equilibrio tra la luminosità abbagliante del rosso e l’assenza di luce del nero, e indica una vitalità controllata, moderata.

ROSSO, blu/indaco e giallo dominano lo straordinario drappo funebre della marchesa Dai, parte del corredo di una tomba rinvenuta nello Hunan (II secolo d.C.), nella Cina meridionale. Nell’inventario viene chiamato «vestito volante» o «abito per prendere il volo». Ha forma di T e dal basso verso l’alto è un’enciclopedia del mondo dei viventi e di quello dei defunti, con un fondo rosso cinabro sul quale gli animali simbolici sono trattati con il bianco d’ostrica, il blu indaco, l’ocra rossa, il giallo gommagutta, il tutto impreziosito e illuminato dalla polvere d’argento.

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IL VERDE È PRESENTE in tutte le bandiere degli stati islamici, colore quasi «araldico»: era prediletto dal profeta, e per la mistica islamica «il più nascosto ha una luce verde». Ma è un colore difficile, per via della instabilità del pigmento vegetale e anche della sintesi tra giallo e azzurro, grave problema per i tessuti, insormontabile per i tappeti, che infatti non lo contengono.
Di fatto, il colore che associamo alla Persia islamica e ai suoi spettacolari edifici è l’azzurro o il turchese, a partire dal 1300 fino all’apoteosi della moschea Shah ’Abbas a Isfahan della prima metà del 1600: la parola «turchese» e la parola «vittorioso» peraltro hanno la medesima radice.
Ed ecco il bianco, origine del grande malinteso del neoclassicismo. Cos’era esattamente la «candida veste» che ricopriva le chiese intorno all’anno Mille secondo la cronaca di Rodolfo il Glabro? «Candidus» è sia bianco che splendente, come pure lo stesso Le Corbusier aveva acutamente inteso, nonostante la sua crociata «a favore del bianco calce».
Sono infatti lo splendore, l’abbaglio come riflesso del divino a fondare quell’estetica fortemente platonizzante di cui l’Abate Suger di Saint Denis è uno degli esponenti più illustri. In un brano molto famoso parla del rapimento metafisico provato davanti alla croce di S. Eligio: «l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne». Fusa nel 1794, ne rimane un malinconico relitto nel tesoro di Saint Denis.
Conosci la fabbrica dove fioriscono i colori? è invece il titolo goethiano di un grande album sul Colorificio Dolci di Verona, corredato da bellissime immagini e dal racconto, dettagliato e partecipe, di Daniela Rosi, stampato con i caratteri biancoenero ad alta leggibilità (il volume è disponibile con una donazione liberale al Lao, Laboratorio Artisti Outsider di Verona, http://www.lao-art.it/lao/).

È UNA DI QUELLE VICENDE di imprenditoria territoriale che attraversano le generazioni e resistono alle mareggiate della storia. Più che naturale che Rosi conoscesse bene la fabbrica (che ha vinto quest’anno il secondo premio dell’Osservatorio monografie d’impresa / Dipartimento di economia aziendale dell’università di Verona), visto che studiava all’Accademia di belle arti, dove ora insegna progettazione per la pittura.
Venire a contatto con le terre naturali coloranti prodotte dalla fabbrica le ha consentito una «sensibilità cromatica più attenta e raffinata». Come ricorda già Plinio, nel territorio di Verona c’erano località dove si trovavano considerevoli giacimenti di terre. Non cita i nomi, ma noi li conosciamo: Valdonega (per la terra gialla, principalmente limonite), Brentonico (per il verde Verona, la celadonite), Marcellise per il gesso … E del resto, Verona è conosciuta come Urbs picta, per l’uso di decorare anche l’esterno delle case, fin dal Medioevo.
Così il capostipite Arturo, una passione quasi da alchimista ma orientata in senso ambientalista, impianta negli anni Dieci del Novecento una fabbrica poi ereditata, come consuetudine, dal figlio Mario, dai nipoti Alberto e Giuliano, infine dal pronipote Andrea. Lungimiranza e prudenza, grande passione e attenzione ai lavoratori con esperimenti partecipativi molto avanzati. Prudenza che si volge in coraggio, come quando, durante la guerra, sfollato Mario con la famiglia, impiega dei partigiani per la costruzione del muretto di una sua casa, rendendoli così insospettabili per gli occhiuti controlli nazisti. Esportano in tutto il mondo i Dolci, e molte delle marche di colori più conosciute contengono loro terre.
Per chi ha una passione «fisica» per il colore, le belle foto di questo volume con le terre, prima nelle cave, poi nelle big bag in fabbrica poi in boccette e fialette, sono sommamente attraenti. E infatti le cartelle colore, fogli suddivisi in quadratini ciascuno con il suo pigmento steso a mano, pensate come campione da mostrare, spesso rimanevano – per così dire – attaccate alla mano dei clienti che, dopo la visita al Colorificio, le portavano con sé.