Angeli erranti volano nel buio mentre la terra accoglie la fragilità della natura, foglie ormai cadute che custodiscono il segreto dell’attimo. Romano Sambati trasfigura nelle sue opere le leggi della natura, una ricerca che svela nel buio e nei colori tenui l’essenza delle forme, uno scavare nella materia quello di Sambati che libera la tensione dell’imprevedibilità e del destino. L’artista riunisce sulla tela pigmenti, carta, polvere, terra e attende nella ricerca riflessioni silenziose come il regista Carlo Michele Schirinzi testimonia nel suo Eclissi senza cielo dedicato a Sambati. Ed è da un’idea di Schirinzi che oggi presso il Castello Carlo V di Lecce sarà inaugurata la personale Dolore delle foglie di Romano Sambati, mostra a cura di Roberto Lacarbonara, realizzata dal Comune di Lecce, Kunstschau e RTI Theutra Oasimed.

Lei ha studiato scultura all’Accademia di Napoli come è arrivato alla pittura?
All’epoca la scuola media non era obbligatoria e si accedeva solo attraverso un esame, l’alternativa era l’avviamento professionale o la scuola d’arte. Per cui i miei genitori mi iscrissero alla scuola d’arte; fu lì che scoprì la scultura e rimasi inchiodato per tutta la vita. Un giorno il professore di storia dell’arte ci parlò di un libro sulla storia dell’arte greca e i miei genitori fecero salti mortali per poterlo acquistare, nel dopoguerra non c’erano molti soldi per comprare i libri. La cosa che mi folgorò fu Il trono Ludovisi dove è rappresentata una fanciulla che suona il flauto. Quell’immagine è stata l’imprinting della mia visione, ciò che mi spinse a studiare scultura all’Accademia. Dopo gli studi non avendo i mezzi per acquistare i materiali iniziai a dipingere diciamo da dilettante, avevo studiato scultura e disegno ma non la pittura.

Nei suoi quadri emerge comunque l’elemento scultoreo, infatti il suo lavoro è definito «Pittura non pittura».
Alla fine della mia ricerca questa differenza tra pittura e scultura non c’è più, anche perché non c’è né una e né l’altra ma solo frammenti. Sinceramente non mi interessava l’immagine di per sé, di mostrare la mia bravura nelle tecniche del disegno di cui ho un ottima padronanza visto che durante gli anni in accademia ogni sera non sapendo che fare andavo alla Scuola del nudo. Quello che mi interessa sono le problematiche, ogni ciclo che ho affrontato è sempre stato un problema che mi si è presentato. Per esempio negli anni ’90 mi chiesi come si può dipinge il buio. Ho passato notti intere negli scavi archeologici dell’antica Rudiae vicino Lecce a guardare e osservare la luna. Ho impiegato tre anni per poter riuscire a ottenere la trasparenza del buio.

Nei suoi quadri e in particolare in questa serie sul buio il rapporto con la luce è fondamentale, come ha trovato questo equilibrio?
Se pensiamo all’acrilico è un materiale che non può essere trasparente. La materia è solida, opaca anche se riesci a dargli un po’ di luce pittorica, rimane sempre solida. L’esempio è Burri. Burri nella sua fase estrema del ciclo di opere chiamate Annottarsi – che coincide con il periodo delle mie ricerche senza che io lo sapessi – usa il colore come materia pittorica invece la mia è trasparenza. Ho provato tutte le sperimentazioni possibili ed è un processo molto difficile che non ti permette di sbagliare, metaforicamente si opera al buio e non puoi vedere cosa uscirà se non alla fine.

Nel documentario di Schirinzi c’è un passaggio in cui vediamo questo processo.
Si, nel film di Carlo c’è un momento in cui si vede questa tecnica. Su una carta molto sottile colo il nero e in alcuni punti applico un nero ancora più forte in modo da creare delle differenze, ma non so cosa accade perché non si può vedere, vado per tentativi. Poi stendo ancora dell’altra carta e inizio a scavare a togliere gli strati di materia da cui inizia a emergere l’impronta del colore. Tra questi cicli ho fatto una ricerca sugli angeli che sarà esposta in questa mostra, si dividono in tre parti e non hanno nulla a che vedere con gli angeli cattolici: Gli angeli senza cielo, Gli angeli senza dio e Il cielo vuoto. Per Il cielo vuoto ho immaginato il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio, un opera di un’intensità incredibile, dove dopo le esequie i personaggi della rappresentazione sono andati via ed è rimasto solo il buio e il luogo dove è stata seppellita la santa. Una cosa che mi piacerebbe tanto sarebbe di esporre la mia serie sugli angeli insieme a quelli di Beato Angelico, per vedere come funziona un angelo di Beato Angelico con uno di Romano Sambati.
Presuntuosamente dico che le mie ricerche reggerebbero.

La mostra inaugurata oggi comprende anche un ciclo di studi che ha iniziato diversi anni fa.

Sì, sul Dolore delle foglie. Le foglie presenti nel quadro sono foglie cadute e la terra invece è ancestrale perché è ricavata da alcuni blocchi di pietra estratti dalla profondità su cui ho trovato questa terra rossa, pura che non ha mai visto il sole. Il mondo in cui viviamo è un mondo dolente non solo per gli umani, ma per tutto il creato soggetto anch’esso alla crudeltà delle leggi della natura, nessuno sfugge, questo è il nodo centrale di questa ricerca che avrei voluto continuare ad approfondire. Sono molto contento di questa mostra ma ho un unico dispiacere di aver interrotto le mie ricerche. Non lavoro mai con la finalità di esporre, se nasce una mostra prima di aver terminato i miei studi entro in crisi perché non devo essere distratto. Per me non è una mostra perché il mio desiderio è che lo spettatore possa essere attratto da delle riflessioni che queste opere suscitano. Il mio obiettivo è quello di mostrare dei pensieri non delle opere.

Il «De Rerum Natura» di Lucrezio è stato fondamentale per lei, questa ricerca si ricollega in qualche modo a questo testo?
Sì, in un certo senso. Ho seguito i libri che costituiscono il De Rerum Natura: la materia, la conoscenza, l’amore, la morte e la peste di Atene con cui si conclude l’opera. Per il libro La conoscenza utilizzai esclusivamente i disegni dei bambini dell’asilo: la purezza dell’inizio della conoscenza del mondo. Lo studio del libro sulla peste di Atene fu un esperienza molto dura. Ricordo che una volta il pittore Suppressa, un pittore post-espressionista molto conosciuto a Lecce, mi fermò e mi disse che non capiva come avessi fatto a non suicidarmi. Lì per lì pensai che non gli fosse piaciuta la mostra, però poi aggiunse chiedendomi come avessi fatto a resistere a quella tensione. In effetti ho sfiorato il suicidio e ho capito che il suicidio non è un pensiero lucido, è una forma di annullamento. Quello che mi ha salvato è l’arrivo di un pensiero cosciente che mi ha risvegliato da quello stato. Fu un’esperienza molto dura di cui sono rimaste tracce nei miei lavori.

Ciò che colpisce dei suoi lavori è che la sua ricerca avviene attraverso uno scavo nella materia da cui emergono le forme.
Quello che faccio è uno svelamento delle forme, le cose vanno disvelate. Scavo e quando compare o intravedo qualcosa la fisso, però se mi chiedi cos’è non so darti una risposta. Io non dipingo. Cosa vuol dire dipingere? Vuol dire costruire un’immagine, io non costruisco nulla, faccio emergere come un archeologo che scava e intravede dei frammenti di mondi. Questa è la mia filosofia di fondo, la scomparsa della pittura che è una memoria, testimoniare che cosa fu la pittura. Oggi nessuno dipinge più, nel senso che tra pittura, teatro, performance non c’è più nessuna differenza e io continuo nostalgicamente a dipingere senza pittura.