Sei in diretta televisiva, fuori da uno stadio per commentare la partita Empoli-Fiorentina finita 2 a 1. Hai il microfono in mano, attorno a te sciamano i tifosi a cui devi chiedere commenti e pareri. Sono trascorsi nemmeno tre giorni dalla giornata contro la violenza sulle donne, ma qui deve essere un argomento poco sentito soprattutto dal tipo che, passandoti dietro, preso da un raptus (ah, l’eterno raptus), paffete, mentre tu parli di schiaffa una manata sul sedere e se ne va tutto contento. Tu gli gridi «Non puoi fare questo», ma figurarti se quello torna indietro a scusarsi, soprattutto dopo un rimprovero così gentile. Dallo studio il collega che sta parlando con te, invece di indignarsi con l’altro per l’evidente violenza, d’istinto raccomanda a te, la molestata «Non te la prendere, non te la prendere». Dirà dopo, per giustificarsi: «Il mio intento era quello di alleggerire per aiutare Greta a gestire una situazione difficile. Ho pensato prima a lei lavorativamente parlando, perché aveva la pressione psicologica di una diretta. Ho provato a tranquillizzarla, non volevo minimizzare l’accaduto, ma evitare che potesse accaderle qualcosa di peggio».

IL TUTTO è successo davanti alle telecamere di Toscana TV, domenica 28 Novembre, a Greta Beccaglia. Il collega da studio così premuroso con lei è Giorgio Micheletti. Il tifoso è stato identificato e lei lo denuncerà per molestie. Questa è una tipica situazione che migliaia di donne incontrano ogni giorno sui mezzi, per strada, in ufficio, in fabbrica e che svela i due pilastri del problema, tutto e solo maschile: la molestia e il silenzio. Serve che i maschi compiano una rivoluzione emotiva, sentimentale e culturale verso se stessi e nei confronti dei propri simili che scambiano il corpo di una donna, e quindi la donna, come un oggetto a loro disposizione. Non sono le donne a dover cambiare modo di vestire, comportarsi, parlare.

NON SONO loro a doversi difendere o far finta di niente. È il maschio predatorio che deve sentire attorno a sé il dissenso degli altri uomini, la condanna, la presa di distanza, la censura dei propri simili. In tanti già lo fanno, ma non basta. Serve un movimento diffuso e convinto. Per queste ragioni quel «Non te la prendere» ci ha urtato. Il primo pensiero, quindi l’istinto, del giornalista non è stato scagliarsi contro il cretino autore della molestia, ma salvare la diretta andando avanti quasi come se nulla fosse successo. Far finta di niente rende complici anche se nel proprio intimo la si pensa diversamente e quel gesto non lo si farebbe mai. Che cos’era più importante, in quel momento? Parlare della partita o condannare il gesto di quel tifoso? Dare agli spettatori il pane che si aspettavano o imprimere alla diretta una svolta che mostrasse lì, sul momento, che cosa davvero vuol dire essere contro la violenza sulle donne? Invece di raccomandare alla giornalista «Non te la prendere» avrebbe potuto dire un sacco di altre cose. Avrebbe potuto interrompere la diretta per solidarietà con Greta Beccaglia, avrebbe potuto dire al pubblico «Questo non si deve fare mai, è un atto di violenza, è un gesto schifoso». Avrebbe potuto aprire una discussione con i tifosi proprio su quel modo di fare e di pensare.
Poiché l’imparabilità è infinita, confidiamo che anche negli stadi e dintorni si cominci a discutere di chi siamo davvero quando ci confrontiamo con una donna. E magari si sottolinei che una manata sul culo non ti ripagherà mai di una sconfitta, ma mostra solo quello che sei, un poveraccio frustrato. Detto ciò, io, che sono meno pacata di Greta, sarei corsa dietro al deficiente e gli avrei dato il microfono in testa. Altro che «Non te la prendere».

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