Imprevedibili come il sorgere del sole – anche se di questi tempi è lecito dubitare di tutto – le primarie laburiste hanno consegnato le chiavi del partito all’affidabile Keir Starmer. E con un mandato nerboruto: 56,2%. Angela Rayner, attuale ministro ombra dell’istruzione, è sua vice con il 53%. Starmer ha staccato di molto sia la candidata corbyniana Rebecca Long-Bailey che la populista Lisa Nandy, rispettivamente con il 28% e 16%.

Scontatamente irenici gli intenti del neo-leader, che si è detto pronto a collaborare col governo nell’«interesse nazionale», formula untuosa che non a caso denota la declinazione «fish and chips» del consociativismo. Un comportamento «statistico» – ammesso si sappia cosa significhi esattamente statista – chiaro segno che il partito è pronto a tornare quello di sempre, un centro di potere amministrativo dello status quo dopo la scapigliatura giovanil-corbynista.

L’emergenza sanitaria globale diventa in questo senso un dispositivo eccellente alla bisogna, sebbene Johnson – che continua nel confinamento a Downing Street non avendo ancora superato il covid-19 che si è beccato facendo lo sbruffone, speriamo – ovviamente – che-gli-passi-quanto-prima, rischi di pagare caro l’approccio «scientifico» all’ormai arcinota immunità di gregge. Che rimarrà anche raggiungibile, ma a rischio di lasciare l’ovile mezzo vuoto. Ieri le vittime erano 4313, i contagiati 41903, ma il carosello delle cifre va considerato alla meglio indicativo. I sondaggi danno ancora il vantaggio tory a livelli totalitari ma le cose potrebbero cambiare drammaticamente in una manciata di ore se il tristo bollettino continuasse a salire e a languire la risposta sanitaria: i sacrosanti applausi rituali per l’abnegazione del personale medico e paramedico sulle soglie delle case ogni giovedì non ricreano i posti in terapia intensiva falcidiati da anni di austerity. Proprio per questo Starmer ha aggiunto nel suo discorso d’insediamento che, qualora fosse necessario, non si sottrarrà alla critica del governo. E non ha ovviamente tralasciato di far fede al sacro giuramento di estirpare la malapianta dell’antisemitismo dal partito, anche se ora, tolto finalmente Corbyn di mezzo e fino al collo in una catastrofe sanitaria, questo non sia esattamente un problema che tiene il paese sveglio la notte.

Starmer, che ha avuto il sostegno del sindacato Unite, è londinese di Southwark, zona ex-operaia imborghesita solo di recente, ha cinquantasette anni ed è figlio di un’infermiera e di un artigiano, (si chiama Keir, pronuncia kie, come il primo segretario laburista Hardie, un sindacalista scozzese). Deputato dal 2015 nel collegio di Holborn e St. Pancras, dopo essere diventato un avvocato specializzato in diritti umani e aver studiato a Leeds e Oxford, nel 2008 è assurto a direttore di Public Prosecutions e di Crown Prosecutions, tra le massime cariche della magistratura nazionale, e in seguito è stato investito del cavalierato (Sir) per meriti giurisprudenziali. Nel suo curriculum forense spicca l’aver difeso, gratuitamente e con successo, due attivisti ambientalisti che facevano sacrosanta controinformazione sulle pratiche di una ben nota catena di cibo veloce faticosamente guadagnatasi il titolo di Internazionale dell’obesità in un celebre caso del 1997 detto McLibel (libel = causa), poi ripreso anche da un omonimo documentario di Ken Loach.

Collocabile nell’area soft left di ascendenze Brown/Miliband, alle primarie del 2015 aveva sostenuto l’attuale sindaco di Manchester Andy Burnham contro Jeremy Corbyn e nel 2016 ha partecipato allo scatologico e fallimentare golpe contro l’allora leader dando le dimissioni dalla carica di ministro ombra dell’interno di cui lo stesso Corbyn lo aveva investito per gettare un osso ai centristi. Si definisce un «socialista morale», formula che ha senso soltanto nel puritanesimo religioso nonconformista inglese e identifica precisamente i limiti del laburismo come forza meramente corporativa. Ha fatto una campagna tutta nel segno dell’unità, non potendo fare finta di ignorare il solco profondo scavatosi nel partito fra la base – che resta massicciamente filo-Corbyn – e il gruppo parlamentare composto in buona parte da tecnocrati con tanto di foglia di fico sulle pudenda post-blairiane. Per questo ha confermato la sua fedeltà alle nazionalizzazioni, anche se il suo manifesto è quello del 2017, non certo quello «radicale» del 2019.