È sintomatico come l’amicizia e la collaborazione fra Hayao Miyazaki e Isao Takahata, due dei pilastri sui cui si è sviluppata l’animazione giapponese nel dopoguerra, sia nata in seno alla resistenza contro la grande azienda per cui lavoravano all’epoca. Così diversi per carattere e per scelte artistiche, tanto che spesso non si sono risparmiati critiche dure l’un l’altro, anche dopo la morte di Takahata avvenuta nel 2018, entrambi sono stati portatori di una forte coscienza di classe che in molti casi si è esplicata anche nei loro lungometraggi. Quando nella seconda metà degli anni sessanta Miyazaki e Takahata lavoravano per Toei Doga, è proprio grazie alla comune ed appassionata partecipazione al sindacato dello studio che finirono per legarsi e cementare la loro amicizia.

Parlare di sindacati per gli studi di animazione è oggi considerato quasi un passatismo, questa quasi totale assenza sindacale si va ad inserire per altro in un quadro già abbastanza deprimente delle condizioni degli animatori nel Giappone contemporaneo: paghe basse, contratti a tempo determinato e spesso a commissione, orari di lavoro inumani.

Alcune di queste tendenze nascono, ad essere onesti, già negli anni sessanta quando Osamu Tezuka e i suoi collaboratori praticamente dormivano negli studi dove lavoravano, ma il contesto era piuttosto diverso e l’industria dell’animazione non era quella colossale che è oggi. L’avvento delle nuove piattaforme streaming al momento non sembra aver portato quella ventata di novità che si sperava, anche perché si tratta di problemi strutturali legati al mondo del lavoro giapponese e al modo in cui è strutturato.

Sul perché l’industria dell’animazione nipponica manchi di sindacati si è espresso ultimamente in un’interessante intervista online Masuo Ueda produttore veterano che nel suo passato ha un’esperienza di lavoro con il colosso Sunrise, produttore di Gundam per intenderci, in conversazione con Terumi Nishii, character designer e animatrice. Secondo Ueda esiste la preoccupazione che la creazione di sindacati possa impaurire i gruppi che finanziano i progetti, in se stesso forse il problema principale del cinema giapponese contemporaneo, in quanto formati da varie entità, televisive o finanziarie, dove il primo scopo è il profitto, e quindi che questi si rivolgano a studi animati meno costosi all’estero. Una situazione che è come un cappio al collo e che viene usata spesso anche per far accettare lavori a costi bassissimi e con scadenze quasi impossibili da rispettare.

Mentre negli anni sessanta, continua Ueda, esistevano molti studi abbastanza grandi da poter sopravvivere, come succedeva anche per il cinema più in generale, ora la maggior parte degli artisti ed animatori sono free lance, assunti a progetto ogni qual volta si manifesta la necessità di un lavoro, e, aggiungiamo noi, è quindi molto più difficile organizzarsi, avere dei fini comuni e far valere le proprie ragioni di gruppo e di classe. Il produttore giapponese continua però aggiungendo che le colpe sono anche parzialmente attribuibili all’atteggiamento degli animatori che non credono troppo a ciò che i sindacati possono ottenere. Ueda nota, sul finire della lunga conversazione, come la strada per migliorare le condizioni dell’animazione in Giappone sia ancora possibile, esistono infatti dei sindacati apparentemente molto attivi nel mondo del doppiaggio per animazione, dove i vari interpreti sono considerati vere e proprie star va detto e che quindi godono di un certo potere di negoziazione, soprattutto se a far sentire la loro voce saranno gli animatori più famosi, esperti e con un nome di richiamo.

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