«Qual è il nostro vitale interesse nazionale? Ne abbiamo solo uno: che dall’Afghanistan non possano più partire attacchi al nostro Paese». Al fondo delle parole di Joe Biden, nel suo address alla nazione di ieri sera a seguito della partenza, lunedì notte, dell’ultimo soldato americano dall’Afghanistan, risuona lo slogan trumpiano dell’America First tramutato nel frequente ricorso all’espressione «interesse nazionale». «Chiedetevi questo – dice il presidente Usa ai giornalisti riuniti alla Casa bianca – se l’11 settembre 2001 l’attacco fosse partito dallo Yemen saremmo mai intervenuti in Afghanistan benché al governo ci fossero i Talebani?». Per l’ennesima volta in questi giorni Biden ci tiene dunque a chiarire che lo scopo dell’invasione e dell’occupazione Usa non è mai stato il nation building o la fantomatica esportazione della democrazia, ma «il vitale interesse nazionale».

E ANCORA una volta punta il dito sulla «corruzione e il malaffare» del governo afghano come le reali ragioni della disfatta di cui il mondo è stato – ed è – testimone. La gestione dell’evacuazione partiva dalla convinzione «che 300.000 soldati afghani sarebbero stati in grado di resistere più a lungo», ammette Biden, ma solo per rincarare la dose contro quelli che evidentemente non ritiene valorosi patrioti come i soldati Usa morti nel conflitto – fra cui i «13 eroi» di cui ha accolto le salme lunedì, vittime dell’attentato kamikaze all’aeroporto di Kabul – e il presidente Ghani, «fuggito dal Paese».
Non manca la stoccata al suo predecessore che «a febbraio 2020 ha negoziato il ritiro statunitense con i talebani». Parte di quell’accordo, ricorda Biden, «era la liberazione di 5000 talebani fra i quali alcuni di coloro che oggi hanno preso Kabul». E il Potus difende anche la gestione della ritirata: cominciarla prima, sostiene, «avrebbe comportato comunque un assedio dell’aeroporto da parte della popolazione, nel bel mezzo di una guerra civile», mettendo in difficoltà quello che allora era il governo legittimo. «Mi assumo la responsabilità» di quanto è accaduto dice Biden. Ma se qualcuno pensa che il ritiro sarebbe potuto avvenire in maniera più «ordinata» negli ultimi 17 giorni da quando i Talebani hanno preso il potere «dissentirei rispettosamente». «Dai cento ai duecento» sono gli statunitensi che restano in Afghanistan, spiega Biden affrontando indirettamente gli attacchi rivolti poche ore prima in una conferenza stampa dei parlamentari repubblicani, che chiedevano il rapido rientro dei cittadini americani rimasti indietro.

«MOLTI DI LORO avevano già scelto di restare» perché nel Paese hanno legami familiari, per gli altri si attiverà quel canale diplomatico che per Biden – anticipato nella giornata di ieri dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan: «L’Afghanistan è passato da essere una missione militare a una diplomatica» – sarà ormai l’unica forma di interazione statunitense con la nazione centroasiatica. A cui il presidente promette «aiuti umanitari, difesa dei diritti umani, in particolare di donne e ragazze come facciamo in tutto il mondo». Ma non con «boots on the ground». «La guerra in Afghanistan è finita», «lo scopo di sconfiggere Al Qaeda è stato raggiunto 10 anni fa» – mentre a Isis-K promette ancora che «non dimenticheremo», ma che il conflitto con loro sarà quello telecomandato dei droni – e ancora: «mi rifiuto di aprire un altro decennio di guerra», o di andare incontro all’escalation che per Biden avrebbe significato tradire la «deadline» del 31 agosto concordata con i talebani. E intesta agli Usa anche un curioso primato, addirittura uno «straordinario successo»: «Nessun Paese nella storia ha compiuto uno sforzo simile al nostro nell’evacuare i cittadini di un’altra nazione». Per loro il senato ha votato ieri all’unanimità una legge che stanzia aiuti economici speciali per 90 giorni da quando raggiungeranno gli Stati uniti.