Marco Bascetta, in un lungo intervento dal titolo «I confini mobili della collettività» pubblicato su queste pagine («Il manifesto», 21/5/2013) propone un’opposizione fra «la stucchevole retorica dei beni comuni e le pulsioni comunitaristiche nostalgiche e premoderne che la attraversano» (in cui indulgerebbe il mio Beni Comuni. Un Manifesto) e l’approccio del Comune di Hardt e Negri: «Del tutto diverso e scevro da ogni tentazione di tracciare un modello ideale di società».

Non esisterebbe dunque alcuna dottrina «bene-comunista» (da cattivi maestri) che si oppone all’uso «buono» dei beni comuni (a là Commissione Rodotà per intenderci) come invece sostiene, sempre più vocalmente, certa letteratura autodefinitasi neo-illuminista di recente attratta dal successo del tema e che lo affronta in prospettiva più o meno professionalmente filosofica.

Che piaccia o meno, comune, beni comuni e bene comune (come del resto comunismo e comunità) sono termini portatori dello stesso prefisso cum di derivazione latina e significante insieme e di suffissi che variamente declinano la locuzione latina munus, significante il dono (ma anche il dovere). Dunque, anche un’analisi etimologica del tutto superficiale mostra la convergenza di due logiche, quella del gruppo e quella del dono, che collocano il perimetro di senso di questi ambiti agli antipodi della logica del mercato, fondata su scambi weberiani razionali fra individui disciplinati dalla logica monetaria individualistica del qui pro quo.

Oltre la gabbia giuridica

A sua volta il sostantivo comune può essere articolato in due varianti: al femminile la comune o al maschile il comune. Entrambe, sostantivandosi, si emancipano dal legame col bene (o la diversa tipologia di beni) di cui altrimenti sono aggettivo, e mettono a fuoco l’attività piuttosto che l’oggetto su cui essa si svolge. In un certo senso può dirsi che l’oggetto tanto del comune (nel senso descritto da Hardt&Negri) quanto della comune (nel senso della Comune di Parigi o dell’esperienza di vita in comune di diversi gruppi legati da visioni politiche o culturali di rifiuto del capitalismo) sia politico e di per sé dunque collettivo. Comune, tanto al maschile quanto al femminile, sfugge a qualunque nesso con l’oggetto in senso giuridico immanente (beni) o metafisico (bene), si colloca nell’area grigia fra fatti e valori (il rifiuto del positivismo meccanicista è marcato) e di conseguenza è incompatibile con qualsiasi relazione riconducibile al dominio pubblico (sovranità) o privato (proprietà).

Dove c’è comune non c’è proprietà e dove c’è proprietà non c’è comune. Dato il legame stretto in termini di dogmatica giuridica fra proprietà e beni (il bene è oggetto, materiale o immateriale di diritto di proprietà) ecco che la locuzione comune, scompagnata dalla nozione di bene, veicola un significato non soltanto anti-dominicale ma anche anti-giuridico. In un certo senso le istituzioni del comune sarebbero istituzioni perennemente costituenti e mai costituite, sempre articolate in contrasto con una strutturazione cristallizzata del potere quale si vuole sia la situazione dominicale.

Naturalmente, la riflessione sul rapporto fra comune e giuridico costituisce uno degli aspetti più affascinanti del dibattito contemporaneo non soltanto in chiave teorica ma anche di prassi, perché una significativa componente delle pratiche di lotta per i beni comuni, in particolare quelle che si sono articolate nell’occupazione di luoghi della cultura (il modello Teatro Valle), effettivamente utilizzano il diritto tanto come strumento quanto come fine del proprio agire politico. In ogni caso la comune, in particolare la generosa e breve esperienza della comune parigina, non è assente dall’attuale dibattito italiano sui beni comuni e lascia traccia nella Fondazione Teatro Valle Bene Comune.

I luoghi della condivisione

La comune dei comunardi è un tipico esempio di una nuova istituzione giuridica del comune, calata in una collettività e in un condiviso apparato valoriale, che si colloca in una zona grigia fra soggetto e oggetto (non esiste comunardo senza il bene comune di riferimento) e anche fra fatto e valore.

Certamente i comunardi, costituiscono una comunità. Non c’è locuzione come comunità che maggiormente agiti, in Italia, le numerose vittime della cattura cognitiva propria della retorica della modernità liberale. Anche Bascetta, sebbene da ben diversa provenienza, conferma questa fobia modernista. Per qualche ragione è questa l’idea, insieme alla ricca tradizione culturale che essa veicola, il comunitarismo, più spesso utilizzata per denunciare la presunta «pericolosità» o talvolta perfino nostalgico conservatorismo che sarebbe prodotto dalla piena espansione dei beni comuni (o del bene-comunismo). Quale che ne sia la provenienza, tali critiche riproducono nel dibattito contemporaneo gli aspetti più potenti dell’ideologia orientalista (del resto ben presente in Hegel e in Marx) sviluppati dall’illuminismo in polemica con una struttura del potere dominata dal rapporto feudale in totale assenza di democrazia (dispotismo orientale).

Oggi tuttavia l’ideale democratico insieme alle istituzioni costituite che cercano di dare un senso alla grande (e mai pienamente realizzata) trasformazione per cui la sovranità appartiene al popolo (e non agli apparati dello Stato) hanno completamente mutato le condizioni al contorno della polemica illuministica contro la comunità. In effetti, lo stesso dibattito fra comunitarismo e individualismo, che si è articolato in una abbondante letteratura accademica, risuona estremamente astratto e forse perfino un po’ inutile per analizzare e comprendere la filosofia «autentica» (in senso fenomenologico) dei beni comuni. La novità teorica che questa nozione veicola nel suo rifiuto radicale dell’astrazione e della separabilità fra prassi e teoria è una ricerca particolarmente caparbia di una prassi democratica «spessa», fondata sul consenso e sulla massima condivisione possibile che rifiuta ogni feticismo del principio di maggioranza.

All’opposto della proprietà

Chiunque sia davvero parte delle attuali prassi di governo dei beni comuni e si ponga mentalmente in sintonia con il modo di pensare rivoluzionario dei «comunardi», sa benissimo cosa davvero significhi dire che i beni comuni sono «l’opposto» della proprietà. Gioverà ripeterlo per i nostri critici: mentre la proprietà è concetto fondato sull’esclusione, sulla rivalità e sulla strutturazione verticale del potere, i beni comuni sono esperienza di apertura, inclusione, diffusione del potere, solidarietà. I luoghi del comune sono comunità aperte, confinanti con altre comunità aperte, proprio perché i confini sono a loro volta rifiutati come un elemento sociale e non fisico. Non esiste un dentro ed un fuori dai beni comuni. Esiste solo un insieme condiviso, organizzato tramite una rete di per sé infinita, secondo una logica condivisa con qualsiasi ecosistema i cui confini sono sempre il prodotto artificiale della necessità di descriverli ma mai un elemento fisico naturale o necessario.

La visione chiusa della comunità identitaria in questo senso è oggi ben più praticata dalle istituzioni illuministe borghesi (si pensi alla fortezza Europa) di quanto non lo sia fra chi immagina una società fondata sui beni comuni. Tuttavia l’ideologia individualista borghese, veicolo dello sfruttamento capitalistico, in ogni sua forma (incluso il feticismo dei diritti fondamentali individuali) identifica la comunità come un nemico e cerca di distruggerla.
Al contrario la filosofia dei beni comuni lavora all’innesto dell’elemento dell’apertura e della piena emancipazione di ogni soggettività all’interno della comunità. In effetti, la sola prospettiva per comprendere i beni comuni è quella profondamente immanente che guarda la realtà dal sotto in su, direi la palude con gli occhi della rana.
Vista in questa prospettiva, che è poi quella ecologica fondata sulla centralità del tutto, considerato come qualcosa di diverso dal mero aggregato delle sue parti, la realtà emerge come un complesso quanto affascinante insieme di conflitto e di cooperazione, dagli esiti cangianti, fra ecosistemi, anche sociali, che si compenetrano in vario modo e che attraverso questa dinamica complessa molto imparano l’uno dall’altro se disposti al riconoscimento. Si pensi al rapporto dinamico fra palude, mare e terra ferma o alla mirabile capacità storica di Venezia di collocarsi in armonia ecologica con il complesso ecosistema fisico, divenuto sociale, della laguna. Tale esito tramandatoci da secoli, emerge dal riconoscimento del limite umano. L’accumulo capitalistico, la tecnologia e la logica estrattiva delle istituzioni della modernità fanno perdere quel senso del limite. L’umano non riconosce l’esistenza di conflitti impossibili da vincere e di leggi ecologiche, che solo all’apparenza possono essere violate ed il delirio di onnipotenza «illuminista», emerge nel progetto faraonico del Mose le cui conseguenze non potranno che essere devastanti.

Oltre la fobia illuminista

In generale, il superamento della fobia «illuministica» nei confronti della comunità, trova nel modello della comunità olivettiana, una concreta epifania economica (di recente è stato ripubblicato Il cammino della comunità con una bella prefazione di Settis) e nella visione gandhiana di un governo di prossimità l’obiettivo politico di un mondo diverso possibile.

Il conflitto e la sua innata propensione a tramutarsi in cooperazione qualora riconosciuto, distingue i beni comuni (al plurale) dal bene comune (al singolare), esito questo di una visione trascendente con antiche radici nella patristica e nella dottrina sociale della chiesa. Anche qui la distinzione può essere segnalata ma non va necessariamente esagerata nelle sue implicazioni.

La filosofia dei beni comuni, rifiuta ogni universalismo e ogni trascendenza e non reprime il conflitto intorno alla cui trasformazione in pratica creativa e generativa cerca di erigere i propri assetti istituzionali. Mentre è perfettamente accettabile l’approccio di chi cerchi di tradurre l’idea del bene comune in quella di pubblico interesse per proporre letture anche costituzionali volte a ripudiare il privatismo e la prevalenza dell’interesse privato (da ultimo Salvatore Settis nel volume Azione Popolare pubblicato da Einaudi), meno lo è chi, lavorando sulla confusione terminologica fra bene comune e beni comuni, cerca di delegittimare politicamente i secondi, estendendo loro critiche fuori bersaglio che servono solo a dividere il fronte.