Wei Tingting è in cella da qualche ora. Gli agenti le hanno confiscato gli occhiali, lasciandola sola e confusa con la sua grave miopia. Per farsi forza, ma soprattutto per far sentire la sua voce alle compagne nelle stanze a fianco, intona: «Spezziamo le nostre pesanti catene; rivendichiamo il nostro potere di donne». Sono versi di una canzone fatta girare in quel periodo sul social media WeChat, in poco tempo diventata l’inno del movimento femminista cinese.

È IL MARZO DEL 2015 e in quei mesi un giro di vite si abbatte con forza sulle organizzazioni dal basso che fino a quel momento hanno potuto godere di un certo margine di azione. Nei tre anni precedenti, Wei e altre studentesse e lavoratrici si sono fatte conoscere per il loro attivismo performativo: partendo da temi non politicamente sensibili, hanno poi puntato il dito contro le norme patriarcali che permeano la società tradizionalista in cui vivono. Nel 2012 sfilano per le vie di Pechino indossando abiti da sposa imbrattati di sangue, per denunciare la mancanza di normative contro la violenza domestica (la prima sarà promulgata solo nel 2016).
Chi fa attivismo in Cina conosce bene la pratica di «prendere un thé», come ci si riferisce in gergo alle convocazioni da parte degli agenti di polizia. Ma la detenzione delle Cinque femministe, che durerà per 38 giorni, è uno spartiacque, dopo il quale la convergenza delle lotte si fa sempre più necessaria. Tradire il Grande Fratello. Il risveglio femminista in Cina, appena uscito con add editore, parte proprio da qui (pp. 280, euro 20). L’autrice Leta Hong Fincher, prima cittadina statunitense a ricevere un dottorato in sociologia alla Università Tsinghua di Pechino (con alle spalle un’altra pubblicazione sulle questioni femminili nella Repubblica popolare) raccoglie anni di interviste ed esperienze dirette. Il risultato è un sapiente esempio di giornalismo narrativo, dove le storie delle attiviste diventano politiche e le loro lotte si insinuano nelle strette maglie della censura e della repressione.
La rete femminista cinese è duttile e resistente, capace di trovare modi sempre più ingegnosi per valicare la censura. Uno, il più noto, è stampato nel frontespizio: due caratteri, che letteralmente significano «riso» e «coniglio», ma che a livello fonetico rispondono al #MeToo, il movimento contro le violenze sessuali nato negli Stati Uniti che riesce ad attecchire anche in Cina.

LA PREFAZIONE all’edizione italiana, scritta da Fincher a gennaio 2024, aggiunge al già ricco lavoro riflessioni su tempi forse mai così duri. Non solo i severi lockdown imposti alla popolazione durante la pandemia e il consolidamento al potere di Xi Jinping con l’abolizione del terzo mandato, ma anche le misure di Pechino per contrastare il calo drastico di nascite e unioni matrimoniali (nel mondo una donna su cinque vive in Cina e qualsiasi trasformazione delle abitudini ha ripercussioni inevitabili sull’economia globale).
Fuori e dentro il web, la rete femminista continua a «tradire il Grande Fratello» e a mettere in discussione l’autoritarismo patriarcale che, evidenzia l’autrice, è ingrediente indispensabile per la sopravvivenza del Partito. Per resistere a una repressione sempre più dura e che dispone di tecnologie sofisticate, alcune «voci femministe» (citando il celebre sito poi chiuso dalla censura nel 2018) sostengono si debba fare affidamento anche sulle forze in esilio all’estero. Una pietra alla volta, tenacemente, fino a riempire il mare. In barba agli scetticismi, imparando dalla storia dell’uccello Jingwei, narrata dalla protofemminista del XX secolo Qiu Jin.