Senza sporgersi sul presente è impossibile capire il passato, scriveva Marc Bloch nell’Apologia della storia. Di certo non ha paura di sporgersi sul presente Mauro Bonazzi, che in Con gli occhi dei greci Saggezza antica per tempi moderni (Carocci, pp. 134, euro 12,00) accosta l’Iliade di Omero a Guerre stellari, Eraclito a Battiato, i Meli che rifiutano di arrendersi alle pretese imperiali degli Ateniesi del V secolo a.C. ai resistenti curdi di Kobane, Epicuro ai rottamatori della politica odierna. Accostamenti suggestivi che possono presentare però anche un rischio, quello di scivolare nel corto circuito che appiattisce il passato sul presente, finendo con l’oscurare le peculiarità dell’uno e dell’altro. Ma è un pericolo di cui Bonazzi è così consapevole da riuscire a non caderci mai in questi sedici brevi scritti, concepiti per un pubblico di non specialisti da parte di un noto specialista di filosofia antica, autore negli ultimi anni di studi sui sofisti e sul platonismo.
I temi affrontati sono vari: il rapporto tra giustizia e politica, tra filosofia e politica, il senso della filosofia, l’esistenza o meno dell’anima. Temi classici della filosofia da quando è sorta, almeno nella nostra tradizione culturale, nella Ionia del VI secolo a.C., per ognuno dei quali si potrebbero citare innumerevoli riferimenti con fatale effetto soporifero. Invece qui il tono non è mai pedante o spocchioso, semmai ricorda quello di una conversazione amichevole ma non banale, che dei testi antichi ripensa soprattutto le domande, oltre che alcune delle soluzioni da essi proposte. I testi e gli autori evocati non sono solo quelli della tradizione filosofica (Platone e Aristotele, oltre ai citati Eraclito e Epicuro) ma anche quelli dei poeti e degli storici, o almeno di Tucidide, il che costituisce una gradita sorpresa. È vero infatti che dai professionisti della storiografia e dai maestri tedeschi, in particolar modo tra Otto e Novecento (da Ranke a Eduard Meyer passando per Max Weber), Tucidide è stato considerato il padre fondatore della disciplina, modello inarrivabile di ricerca inflessibile della verità; ma a chi non appartiene alla cerchia dei cultori di storia il nome Tucidide è sempre stato poco noto, anche per lo stile così arduo che lo rende poco scolastico e quindi spesso poco presente nella memoria delle persone di media cultura. E anche se negli ultimi vent’anni Tucidide è assurto a padre fondatore della teoria delle relazioni internazionali, fino a diventare uno dei pensatori più citati nei dibattiti sulla politica estera occidentale (almeno negli Stati Uniti), quasi nessuno sembra essersene accorto qui in Italia.
Molti di questi testi e autori tornano, ma con ben altra densità di analisi, ricchezza argomentativa e ampiezza di riferimenti bibliografici, in un altro testo di Bonazzi appena pubblicato: Atene, la città inquieta (Einaudi, «PBE Mappe», pp. 223, euro 22,00). Il punto di partenza, comune anche al libro precedente, è l’idea che non si possa ridurre la tradizione culturale greca al razionalismo di Platone e Aristotele, una riduzione operata da studiosi illustri e recentemente anche da Benedetto XVI, alias Joseph Ratzinger, nel celebre discorso di Ratisbona del 2006, in cui rivendicava il legame tra cristianesimo e logos greco. Ma la Grecia dei filosofi non è l’unica; accanto, anzi prima di essa, c’è sempre stata anche la Grecia dei poeti, esaltata già da Nietzsche nella Genealogia della morale e più recentemente da Bernard Williams, il filosofo inglese scomparso nel 2003, che in Vergogna e necessità (tradotto dal Mulino nel 2007) sosteneva che è in Omero e nei tragici che vanno cercate le radici delle nostre idee morali.
Se per un verso in Platone, preceduto almeno in parte da altri, è centrale l’idea che si può trovare un senso complessivo alle cose, l’altra Grecia è quella di chi è scettico sull’idea che la ragione possa tutto capire, tutto spiegare. È la diversa concezione della giustizia a costituire il filo attorno a cui si dipana questa indagine, per il suo valore sia immediatamente politico (senza giustizia non si dà convivenza civile), sia esistenziale e filosofico nel senso più ampio (la giustizia chiama in causa anche i concetti di responsabilità e di autonomia dell’essere umano). A partire dall’Iliade, il primo testo della letteratura greca in cui gli eroi sia greci sia troiani agiscono in una ricerca di affermazione individuale che non conosce compromessi, generando così conflitti anche tra chi combatte dalla stessa parte: come nel caso della lite che apre il poema tra Achille ed Agamennone, scatenata dalla contesa per una schiava che non interessa davvero a nessuno dei due ma che provoca l’ira del primo e tutta la successiva sequenza di eventi funesti. L’incapacità di risolvere i conflitti se non attraverso la forza genera una società destinata a implodere; ma nel poema affiorano, sia pure in maniera discreta, anche altre possibilità, come il processo raffigurato nello scudo di Achille, ossia la possibilità di creare istituzioni comunitarie in alternativa alla forza.
All’impasse omerica si contrappone l’idea di un ordine giusto fondato sulla divinità a cui l’uomo deve necessariamente conformarsi, ribadita con toni e sfumature diverse da Esiodo, Solone, Eraclito; mentre a rimettere tutto in questione intervengono i sofisti, questi maledetti del pensiero, oscurati dalla condanna platonica: giusto è ciò che viene deciso di volta in volta dagli uomini; è il consenso a fondare la giustizia. Una concezione relativista, insomma, che sembra ben sposarsi con quella democrazia che trionfa ad Atene nello stesso periodo ma che può esprimersi anche come affermazione del proprio potere su chi è più debole senza riguardo ad altro che al proprio interesse, originando una guerra che alla fine si rivela distruttiva anche per Atene stessa, come Tucidide (riletto con qualche omaggio a Leo Strauss) ha così lucidamente descritto. La risposta di Platone sarà che è l’anima individuale ad avere bisogno della giustizia, prima ancora che la società. Risposta originale e potente, ma non tale da spazzare via l’alternativa: Omero o Platone?