A volte si vedono le magliette con l’immagine scultorea del duce, che pronuncia una delle sue tante frasi ad effetto. Se si percorre una Columbus Avenue di una qualsiasi grande città americana, si può stare certi che tra i simboli dell’italianità, spesso accostati a quelli della virilità latina (un falso di grande successo, che dura da cent’anni), c’è una qualche immagine di Mussolini. Come dire: spaghetti e mascella volitiva. Lo stesso manganello ammicca al rapporto tra sessualità e potenza. Poiché il fascismo, ossia non il regime morto sulle ceneri della guerra che esso stesso aveva scatenato, ma quello che si riproduce come calco politico di lungo periodo, era riuscito in un collaudato connubio: mettere insieme dimensione pubblica (la politica come tale, allora caratterizzata dall’accesso di grandi masse di persone ai processi elettorali), quella privata (i pensieri e le idee di ogni giorno, trasmessi inconsapevolmente con i giudizi di senso comune) e sfera intima (il sesso come manifestazione di superiorità, di prevaricazione, di imposizione).

IN UN FONDAMENTALE FILM di Ettore Scola, Una giornata particolare, del 1977, molto di questo già c’era: una Roma proletarizzata e accasermata, l’uniformità delle divise, l’entusiasmo dietro agli eventi del regime e alle parole d’ordine, la marginalità completa di chi non si adeguava e molto altro. Poste queste premesse, cosa resta di Mussolini, al netto dei culti funerari che arrivano all’oggi, quindi della tanatofilia, sospesa tra il sansepolcrismo delle origini e il predappismo degli esiti? Una necrofilia, per capirci, che è un elemento imprescindibile di ogni fascismo, quindi non solo di quello italiano, costituendone un tratto distintivo in quanto profondo. Perché ha quindi ancora un senso parlare, ritenendo che la partita non si sia chiusa per sempre con il 1945, di un protagonista che oscillò permanentemente tra farsa e tragedia, occupando con la sua immagine e le sue parole almeno vent’anni di storia? Su cosa si fonda una mitologia mussoliniana, ossia una raccolta di immagini e parole da lui stesso create, e quindi diffuse, così come di raffigurazioni ed espressioni che, prendendo l’abbrivio dalla sua persona, si sono riprodotte fino ad oggi? Il problema di identificare un lessico mussoliniano, che è cosa a sé rispetto al fascismo storico – comprendendolo nel suo seno ma, per non pochi aspetti, mantenendo anche una sua peculiare autonomia – è una questione aperta.

POICHÉ IL FASCISMO perenne, quello che non muore, si identifica per grande parte nella costruzione di un sorta di idealtipo, di «modello» politico, del quale Mussolini fu consapevole depositario. Detto in altre parole, quel linguaggio, quei pensieri, quelle costruzioni mitologiche, non si sono esaurite con l’esposizione del suo cadavere, a tratti oramai deformato, e a testa in giù, a piazzale Loreto, nel 1945.
David Bidussa, nella sua densa introduzione (di fatto un libro a sé) all’antologia di Benito Mussolini, Scritti e discorsi, 1904-1945 (Feltrinelli, pp. 700, euro 25), ci invita a prendere sul serio il personaggio storico, la sua lingua, il suo corpo ma soprattutto le relazioni che ha intrattenuto con le culture politiche del suo tempo. Del quale, in qualche modo, è figlio, ancorché da molti non riconosciuto come tale. Non si tratta di sfogliare un improbabile album di famiglia ma semmai di capire come gli riuscì, a rigore di metafora, a distruggerlo, generando una diversa concezione dell’appartenenza politica, basata essenzialmente sulla dittatura. Ci invita quindi a «considerare la pervasività di un regime che diviene totalitarismo; il suo radicamento, la sua durata, le permanenze dopo la sua dissoluzione». In altre parole ancora, a identificare le linee di continuità nel suo radicalismo che, sia pure sostanziate da una missione criminale a sé stante, tuttavia si incontrano e si incuneano con le ideologie e nelle culture politiche del primo ’900. Mussolini le attraversa, se ne nutre, le usa a proprio beneficio, salvo poi disfarsene quando più non gli occorrono, ovvero spolpandole. Non è la storia di un opportunista, come vorremmo invece credere, magari assecondando la lettura che consegna l’italianità ad una sorta di minorità antropologica insuperabile, bensì l’interpretazione dell’estrema porosità che molte culture politiche hanno rivelato nel tempo, al pari di una sorta di fianco debole dentro il quale far proliferare i batteri che le decomporranno.

STORICIZZARE MUSSOLINI, da questo punto di vista, non implica incasellarlo dentro una cornice ideologica di riferimento che gli preesista bensì capire come ciò che egli, insieme ad altri, andò creando, si alimentasse di suggestioni e indicazioni che erano figlie del loro tempo. Non è riscontro così ovvio. Anche per questa ragione la scansione temporale dell’antologia si organizza intorno a tre tempi, il 1913, il 1922 e il 1932. Ne è incluso il livido e tetro duce della Repubblica sociale italiana, benché già si inscriva in una discontinuità storica, quella che genera ciò che poi abbiamo conosciuto come neofascismo. Quasi a voler dare i natali a ciò che gli sarebbe sopravvenuto.
La prima data identifica la sovrapposizione tra classe e guerra, decretando lo scivolamento dell’allora direttore dell’Avanti! verso i lidi dell’interventismo. Il debito con il nazionalismo radicale diverrà tale, ben presto, da risultare insolvibile. La seconda è non meno significativa, poiché rimanda al transito dalle posizioni dell’«antistato» al calco del «farsi Stato». Il partito fascista nel ’22, approssimandosi la marcia su Roma, si pone non come contropotere ma in quanto potere coesistente con quelli che lo precedono (e per buona parte lo seguiranno). Fonda una sua legalità, avvia un processo di auto-legittimazione che incontra l’assenso dei grandi gruppi corporati, delle istituzioni, delle amministrazioni, della monarchia. Il ’32, infine, è l’anno dei bilanci, dove alla stabilizzazione del regime si accompagnano le evocazioni generazionali di una sua proiezione verso altri orizzonti, anche a rischio di rompere con gli equilibri interni alle sue diverse componenti. A una tale intelaiatura cronologica si accompagna, nell’antologia di Bidussa, l’attenzione per le scansioni biografiche del Mussolini politico.

La prima è quella della militanza socialista, che si conclude con il 1914. La seconda, laddove la classe progressivamente si fonde nella «nazione», rimanda alla ricerca di una collocazione tra destra e sinistra, durante gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra. Il terzo momento, tra il ’20 e il ’26, pone nel suo insieme tutte le questioni che non solo portano il fascismo da essere movimento a divenire partito e, quindi, dall’andare al potere al trasformarsi in potere, ma quel tema del totalitarismo che, nella quarta fase, che arriva fino alla «costruzione dell’Impero» (1936), è il progressivo richiamo ad un fondamento etno-nazionalista dell’identità italiana, insieme alla revisione del sistema di accordi derivati da Versailles. L’ultima scansione, infine, è quella che coincide con l’alleanza con la Germania, il razzismo di Stato, la guerra e il cupio dissolvi.

RILEVANTE È LA RICERCA, da parte di Bidussa, anche sulla scorta dei lavori compiuti soprattutto negli ultimi quarant’anni da molti studiosi, della continuità del tracciato antisemitico, nella misura in cui questo non ci restituisce tanto una fermo immagine nel rapporto con l’ebraismo quanto della gerarchizzazione delle relazioni sociali attraverso il filtro delle appartenenze ascrittive. Quest’ultimo, infatti, è un vero e proprio universo di significati che vive di una sua luce autonoma, proiettandosi sul presente, ossia sull’immaginario sovranista, identitario e, per alcuni aspetti, «antimondialista». Anche per una tale ragione la lettura critica dell’antologia può risultare utile, non solo riprendendo i molti fili tessuti nel mentre rispetto alla figura storica di Mussolini ma anche il problema della persistenza non tanto di un’ideologia compiuta bensì di un calco profondo, che è mitopoietico. La forza del lascito fascista, in fondo, sta anche nell’avere generato un’idea di sé che non si esaurisce con la cronaca dei fatti. Forse è il vero spettro del ’900, quello che si aggira irrequieto tra le stanze e i luoghi dell’età che sempre più faticosamente abitiamo.