Nel gioco del «mi piace» e «non mi piace» il nuovo direttore Carlo Chatrian sembra avere conquistato pubblico e stampa svizzeri (ed essere assai più in alto nell’indice di gradimento del presidente del Festival). La faccia da ragazzo appena intimidito piace alla platea pomeridiana del Fevi, migliaia di persone davanti alle quali introduce i film in gara quasi saltellando, mentre sembra un po’ più in difficoltà la sera in Piazza, in coppia con una bionda presentatrice che sullo schermo svetta altissima con un effetto da «strana coppia» appena uscita dal mondo di Oz.

C’è anche chi attacca, tipo i giornali cattolici, ma quelli stanno lì apposta, e poi i film annunciati come «scandalo» – con tanto di avviso nel programma – non sono così scandalosi. Prendiamo L’Etrange Coleur des larmes de ton corps di Helen Cattet e Bruno Forzani, una specie di compendio lounge-extravaganza senza essere eccentrico per nulla. Pastiche di generi e citazioni in un mal interpretato postmoderno scivola tra Bava, Argento, suggestioni lynchane, giochini da neofiti fantarantiniani che scoprono il cosiddetto italian B movies, i cult dei Settanta, Morricone e quant’altro innestati nell’Art Nouveau della casa a Bruxelles in cui si svolge.

L’ossessione di un uomo, e del suo doppio, la moglie scomparsa al suo rientro dal viaggio, occhi minacciosi, scale pieni di pericoli, porte e buchi voyeur nel muro, una vicina ambigua che ammicca a Profondo rosso ma anche a Emmanuelle .. Bianco e nero e colore per patinati tagli di orecchie e lame che si infilano nel sesso femminile, più che shock appare un esercizio cinematograficamente vuoto dentro a un concorso che si è scelto di comporre in modo molto diversificato. Niente di male, per carità, anzi la «linea editoriale» in un festival a volte può diventare una prigione. Le edizioni precedenti di Olivier Père avevano un’impronta sin troppo chiara, quest’anno finora l’impressione è che manchi un po’ più di aggressività personalizzata. Si vedrà.

Ne gioco di cui sopra, «mi piace/non mi piace» posso dire che il direttore non mi è piaciuto affatto quando ha presentato la prima proiezione pubblica di Pays Barbare il film in gara di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian specificando al pubblico, si richiesta del produttore (Les Films d’Ici) che i primi minuti del film erano senza sonoro, e dunque di non preoccuparsi. Mai visto in un festival, e se manco qui, in quello che dovrebbe essere un appuntamento col cinema, e con quel cinema di ricerca (sull’impressione di «ghetto» per alcune sezioni torneremo), si crede nel pubblico proprio come fanno televisioni e ministeri vari, beh è parecchio avvilente.

Pays barbare, allora, il nuovo film dei cineasti, artisti, viaggiatori, archivisti che nel «riuso» delle immagini, talvolta anche le loro (ma non è questo il caso) cercano un’attualità del passato, o una memoria del futuro, in cui il l’immagine, è centro vivo, luogo del conflitto, bordo di potenzialità declinate al presente – uscirà in Italia distribuito da Feltrinelli.

Il «paese barbaro» è il nostro, l’Italia, anche se il progetto come hanno ripetuto più volte i due registi nel corso di questi giorni, guardava inizialmente a tutta l’Europa. Si parla, infatti, del fascismo e non semplicemente in chiave storica, anche se Pays barbare si apre con un piano stupefacente ripreso a Piazzale Loreto il giorno dell’uccisione di Mussolini. Il fascismo a cui fa riferimento il film è uno stato d’essere molto più ambiguo, e diffuso, storico e quotidiano.

Qualcosa i cui segni sono visibili, e feroci, in quel buio del finale dal quale la voce di Angela Ricci Lucchi interroga noi spettatori . Un urlo, il suo, di rabbia e di dolore: «e voi?» già noi, ma il grido rimbomba anche dentro alle loro immagini, potenti sulle quali stride il salmo di Giovanna Marini, complice artistica abituale dei due cineasti, e talvolta la voce di Gianikian, e le interroga a loro volta Quella Storia di cui sono mute testimoni narranti viene dilatata, sgranata persino nel lavoro che Gianikian e Ricci Lucchi compiono su ciascuno dei loro fotogrammi, archivi inediti pure quando visti perché privati dell’abitudine di un contesto che li piega alla logica comune. È un lavoro che caratterizza ogni loro film, ma qui è come se l’urgenza si fosse fatta più forte, è come se la necessità di mettere a nudo in questi archivi i nostri tempi sia irrefrenabile.

. Del resto viviamo nel paese che permette a un’alta carica dello stato di chiamare un ministro «orango», mentre a scuola le imprese coloniali dell’Italia sono ancora assenti nei nostri libri di scuola. Se non fosse per Del Boca la commedia all’italiana degli italiani colonizzatori buoni non avrebbe crepe (proprio qui avevamo visto sull’argomento la magnifica investigazione di Luca Guadagnino, [do action=”citazione”]E Pays barbare appare quasi un ciné-tract, in cui le immagini del colonialismo italiano, delle barche piene di preti, ministri, funzionari, imprenditori che solcano i mari verso l’Africa per la grande impresa di conquista voluta da Mussolini non ci fanno soltanto pensare all’oggi, ai viaggi all’inverso sul Mediterraneo e lungo le tratte delle nuove schiavitù nei post e neocolonialismi, ma lo esigono[/do]Inconscio italiano). Torniamo a quell’inizio, al movimento della folla di una nuova Italia vestita a festa che ondeggia davanti al corpo caduto del duce il cui unico commento sono le parole di Calvino: «Dopo essere stato all’origine di tanti massacri senza immagini, le sue ultime immagini sono quelle del suo massacro». Gli uomini hanno la cravatta, le donne l’abito buono, la guerra è finita e tutti si sono scoperti antifascisti. La tecnica delle grandi alleanze si collauda subito, in nome della pace (o di un patto) sociale. All’improvviso l’Italia ci appare più chiara, quasi fosse giù tutto lì.

Costruito per capitoli , il film ci riporta indietro nel fascismo: poco prima il consenso era quasi generale, Mussolini costruiva il proprio Mito con l’appoggio, e in sinergia di qualsiasi potere. La Libia, l’Africa orientale, sono i barbari, le donne coi seni scoperti che sono prede, corpi da usare per i soldati, gli uomini che devono piegarsi all’invasore. Ma chi sono quei militari che pretendono, come la storia dell’occidente vuole, di portare nella conquista la civiltà? E che come in farsesco carnevale si mascherano col duce nel sogno dell’Impero?

Nel 1926 Mussolini stermina in Libia coi gas almeno centomila civili, i «ribelli» li chiamano tutti coloro che avevano resistito ai fascisti. Le immagini sono feroci, corpi disseccati, senza umanità la cui «disumanizzazione» è crudelmente in contrasto con le feste dei volontari italiani giunti a prendere possesso di quelle terre. Razzismo, violenza, umiliazione. Le mani degli uomini che carezzano la ragazza africana, la schiava, lei ride mentre quelle dita la invadono in ogni centimetro di corpo. I soldati scrivono a casa, grafie incerte, alle mogli, alle fidanzate, si preoccupano della mucca, dell’orto. Sono anch’essi, i conquistatori, poveri, figli di una miseria che il fascismo incrementa con le sue battaglie, fino alla guerra che precipiterà l’Italia nel disastro. E il dopo, coi suoi meravigliosi boom sarà davvero una nuova partenza?

Ogni immagine ci guarda, ci dice un pezzo di Storia, molto di noi. Il tempo del cinema diviene un tempo storico, quello di immagini negate e che continuano a essere tali, quei «massacri senza immagini» fatti scomparire insieme a tutto il resto, e mai resi patrimonio di una consapevolezza collettiva, di un «inconscio» rimosso o opportunamente oscurato. Sono archivi ma potrebbero essere immagini girate oggi: è come i cineasti le rendono realtà che le fa vive, mettendo in discussione il senso del filmare, di un «cinema politico» che senza retorica dichiara la propria resistenza.