II comunicato del gruppo di Deng, dopo un mese di silenzio, non potrebbe essere più chiaro. Parla a nome d’un partito il cui segretario generale è sparito e di un governo la cui assemblea non è in grado di sapere dove sia finito il presidente. Parla il linguaggio del colpo di stato.

Bella fine per il «grande vecchio democratico» coccolato dall’occidente. Un comunicato che rivendica il massacro che si sta compiendo con gli argomenti più tradizionali e assurdi: ci sarebbe stato un complotto di poche persone «contro il popolo» e doveva essere represso.

Ma il mondo intero ha veduto il popolo, centinaia di migliaia di persone, operai, ricercatori, giornalisti, artigiani scendere per le strade in appoggio agli studenti in Tian An Men. Di più, ha visto i soldati mandati nei primi giorni a parlare con gli studenti, fare con loro, emozionati, la «V» del segno di vittoria, piangere con loro. Ha visto un dirigente del partito, che poi sarebbe sparito dalla circolazione, parlare con loro di persona, umanamente e con angoscia, come se sapesse quel che li aspettava, e lo aspettava.

Deng Xiaoping – che Europa e Stati uniti amano molto perché, abile voltagabbana, gli ha reso il servizio di dire che il comunismo era un’utopia, che bisognava reintrodurre in Cina capitalismo e profitto, fare milioni di disoccupati, far pagare le scuole e gli ospedali – sta dimostrando sanguinosamente che cosa sia, a che cosa approdi, la ricetta capitalista destinata ad arricchire pochi e opprimere molti nel paese più povero e più popolato del mondo. Bel risultato per gli adoratori della produttività e del mercato.

Era ben realista quel Mao che chiamavano visionario, quando cercava di far lavorare quel miliardo di braccia e proponeva loro di dirigersi da soli attraverso le Comuni, mettendo in guardia «contro la razza di signori che pesa con tutto il suo peso sulla schiena del popolo». Conosceva l’antica anima della Cina, i suoi vizi, quel suo stesso partito che non aveva voluto reprimere. Mentre Deng, il cosiddetto realista, dopo avere svenduto oltre che le risorse del paese il patrimonio della sua rivoluzione, si trova ora di fronte un popolo immiserito e furente contro i profittatori e speculatori che egli ha incoraggiato. Milioni di uomini che vanno a morire contro le sue truppe speciali piuttosto che recedere.

Una carneficina come non conoscevamo dagli anni venti, quasi che negli affossatori di Mao fosse rispuntata la vecchia Cina feroce che Mao aveva vinto. E lo spettro dell’uomo della Lunga Marcia terrorizza le loro menti senili: il loro comunicato lo vede dappertutto. E forse ha ragione. È la Cina democratica e rivoluzionaria che ha imparato la libertà e non se la lascerà prendere, per terribili che siano i giorni che la aspettano.

Articolo pubblicato sul manifesto il 6 giugno 1989