Probabilmente nel difficile rapporto tra stampa e giustizia il caso del Male è stato abbastanza unico. Un numero spropositato di denunce a direttori responsabili e redattori, gli arresti e una incredibile quantità di sequestri ci aveva costretto a dotarci di un direttore responsabile al quale pagavamo una dorata residenza a Katmandu in Nepal. Il mercoledì usciva il giornale in edicola e immancabilmente nel pomeriggio stesso o al massimo il giovedì mattina arrivava un Maresciallo dei Carabinieri a consegnarci una qualche denuncia. Quelle normali riguardavano soprattutto l’oltraggio al pudore, il vilipendio a capi di stato italiani o esteri, querele di ogni tipo ,ordine e grado e immancabilmente il sopraddetto carabiniere e i suoi accoliti procedevano anche al sequestro del giornale in genere prelevavano un pacco che avevamo già preparato con copie venute male o addirittura di numeri precedenti e loro se ne andavano via contenti, convinti di aver realizzato una grande operazione. Le cose cambiavano molto quando mettevamo in scena un evento importante come poteva essere un Conclave per eleggere un nostro Antipapa che ci costò oltre alle denunce anche l’arresto di due redattori Vincenzo Sparagna e Carlo Zaccagnini e poi più avanti altri arresti di Gerardo Orsini e di Calogero Venezia.

La cosa più divertente, si fa per dire , in quegli anni era l’attenzione spasmodica di Digos, Ucigos e polizia politica in generale. Questa attenzione era cominciata con il sequestro Moro durante la quale eravamo stati indagati o come fiancheggiatori o semplicemente come sovversivi. La cosa andò avanti a lungo anche perché sulle nostre pagine avevamo ospitato Franco Piperno un latitante dell’inchiesta del 7 Aprile e poi per aver dileggiato gli inquirenti dell’indagine su Moro provvedendo noi stessi all’arresto di Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse.

Queste denunce, arresti e sequestri erano preoccupanti e molti di noi non nascondevano un certo timore ma a volte questa furia repressiva sortiva anche dei grandi risvolti comici come abbiamo scoperto dalle informative della Digos, (cioè fatte da persone che a fine mese percepivano anche uno stipendio) che la famosa scissione del gennaio 1980 tra Male Popolare e Male De Luxe era un falso perché nella gerenza comparivano gli stessi nomi. Una scoperta pazzesca. Un altro caso emblematico fu la pubblicazione di un racconto dell’avvocato e poeta Corrado Costa nel quale rivolgendosi, alla signora Paola, moglie di un suo cliente sordomuto e al momento detenuto in un carcere speciale, le consigliava di dire a suo marito di non sottoporsi a una perizia fonica e in ogni caso di non parlare assolutamente con i giudici. Ovviamente il nome Paola corrispondeva a quello della moglie di Toni Negri sospettato di essere l’autore della telefonata che annunciava la morte di Aldo Moro Corrado Costa e altri collaboratori del giornale in passato avevano frequentato ambienti vicini a quello dell’imputato per cui la Digos si era convinta di aver messo le mani su uno scoop gigantesco e iniziarono una serie di ridicole perquisizioni alla ricerca dell’originale della lettera, prima al giornale poi nelle case di redattori ma senza riuscire a trovare traccia di questa lettera che in realtà era semplicemente un racconto di finzione che una volta messo in pagina era sparito nel casino della redazione probabilmente finito in qualche cestino o usato per incartare qualche residuo alimentare. In realtà il caso era chiuso dall’inizio perché il detenuto di cui sopra era sordomuto ma la Digos non aveva colto quest’aspetto.

«Il medium è il messaggio». Cosa c’entra l’affermazione di Mac Luhan con quel pezzo di storia della satira italiana segnato, alla fine degli anni Settanta, dalla meteora de Il Male? C’entra, se ragioniamo sulla biografia di chi ha vissuto quell’avventura davvero fuori dal comune. La creazione, a partire da un’idea di Pino Zac, di un settimanale, colto e popolare al tempo stesso (vi scrissero, per divertimento, ma allora nessuno se ne accorse, anche Italo Calvino, Umberto Eco e Leonardo Sciascia), che arrivò in breve tempo ad avere centinaia di migliaia di lettori, e che poi scomparve altrettanto rapidamente, per molte diverse ragioni.

C’entra con la storia del piccolo gruppo che, verso la metà degli anni settanta, ha tentato di applicare la lezione delle avanguardie artistiche, in particolare del Dadaismo, filtrata attraverso le riflessioni di Debord e dei Situazionisti, alla comunicazione alternativa in Italia. Sto parlando di alcune pubblicazioni uscite tra il 1976 e il 1977 (Zut, A/traverso e pochi altri giornali di «movimento»). Una parte di quell’esperienza, assieme a quella de L’avventurista, supplemento di Lotta Continua diretto da Vincino, si è riversata poi ne Il Male.

Quel modo di fare satira, il messaggio insomma, era connaturato, a un modo temerario e irripetibile di gestione del mezzo di comunicazione, a un’anarchismo meditato che trovava alimento in una situazione storicamente determinata, che gli anni ottanta stavano per travolgere. La satira, per noi de Il Male, era la continuazione della ribellione con altri mezzi. Non era un mestiere, non si può essere ribelli di professione.

La maggior parte di noi ha smesso di scrivere satira, parlo appunto degli scrittori del giornale, quando ha capito che non era possibile reinventarsi un altro Male. Perché il mezzo, per chi ha creato e lavorato in quella rivista, rappresentava quasi tutto. La nostra scelta era quella del mimetismo totale. Il nostro obiettivo non era scrivere su un qualsiasi giornale, ma falsificare qualsiasi giornale. Intendo il linguaggio giornalistico. Falsificare qualcosa che è già di per sé un falso, un’illusione, nella quale si specchiano ogni giorno milioni di persone.

Quella fase, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, è forse l’epilogo, almeno per quanto riguarda l’Italia, di un periodo storico secolare, nel quale la stampa ha rappresentato lo specchio dell’opinione pubblica, dunque la comunicazione popolare per eccellenza. È anche il luogo privilegiato della propaganda e della persuasione più o meno occulta. L’universo della stampa dell’epoca è grigio, la grafica e il linguaggio sono antiquati. Un giornale di allora visto con gli occhi di oggi sembra appartenere a un’era lontana anni luce. La politica non parlava ancora con la voce della pubblicità. Dalla prima metà degli anni Ottanta tutto questo universo in bianco e nero finirà, soppiantato dalla nuova televisione a colori. Falsificare un importante quotidiano di allora, uscire nelle edicole abusivamente con una tiratura intera, seppure con numero di pagine ridotte, significava mettere una miccia in una polveriera. Dare vita a un sovvertimento della realtà della durata di qualche ora o di qualche giorno. Il sogno di qualsiasi autore satirico. Un sogno allegro, manicomiale, eversivo, quasi mai macabro. Anche se i tempi erano duri. Era un’epoca di estremismo, e il nostro era umorismo estremo.