È un libro assai utile quello di Alessandro Arienzo su La governance (Ediesse, pp. 205, euro 12). Perché permette di indagare una formula confusa ed abusata, nell’oramai quarantennale dominio neo-liberista del capitalismo finanziario.

Il volume fa parte di una collana di recente creazione. È quella dei «fondamenti», che un gruppo di giovani curatori promuove, con l’editore Ediesse, «per un vasto pubblico di lettori curiosi e appassionati», incrociando il «taglio monografico» con «l’alta divulgazione». Una sfida notevole, di questi tempi, quella di unire approfondimento della ricerca e diffusione del sapere. Sembra scomodare i celebri Libri di base diretti da Tullio De Mauro, che Editori Riuniti pensò in tutt’altra fase culturale. Ad ogni modo l’impostazione grafica di questi volumi è caratterizzata dalla presenza di schemi esemplificativi, glossari, bibliografie commentate e sunti chiarificatori posti alla fine di ciascun capitolo, «per riassumere» il contenuto di quanto detto in precedenza. Il tutto senza perdere il taglio analitico critico che vorrebbe contraddistinguere la collana. Sicuramente così succede con il volume di Alessandro Arienzo, ricercatore appartenente alla scuola filosofica napoletana e attento studioso di governamentalità e biopolitica che dagli studi sulla ragion di Stato è da tempo approdato a scandagliare i meandri delle tecniche di governance contemporanea.

Un generico termine

Ma che cos’è la governance? Questo l’interrogativo che apre il libro. Seguono tre capitoli riguardanti la governance europea, quella internazionale, tra sicurezza e sviluppo, per finire con una riflessione sulla portata della governance tra Stato e mercato.

Arienzo chiarisce subito che il lemma governance può essere inteso come «espressione generica del governare»: «qualsiasi forma di organizzazione dell’azione collettiva». Qui la memoria risale alle formule utilizzate nella Francia medievale, piuttosto che nell’Inghilterra del Seicento. Ma l’opposizione tra governance e government si afferma nel lessico pubblicistico e scientifico con le riforme delle istituzioni di governo locale e metropolitano negli Stati Uniti degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Poi arriva la corporate governance delle imprese finanziarie, che diviene parametro di comportamento delle istituzioni della globalizzazione: dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale. Da una parte quindi il governo gerarchico-piramidale che si fonda sull’autorità sovrana dello Stato. Dall’altra la governance dei meccanismi informali, di processi aperti e diffusi, tendenzialmente orizzontali e non-gerarchici, che includono reti decisionali miste, pubbliche e private.

Ecco che qui Arienzo si concentra giustamente sulla tendenza oramai quarantennale dell’attuale concetto e pratica di governance: «un percorso di messa in discussione delle procedure del governo rappresentativo negli Stati democratici e parlamentari», non per aprire spazi di orizzontalità partecipativa, ma per obbedire al dogma della «governabilità». È un mantra che giunge fino agli epigoni del compromesso storico, tuttora ai vertici istituzionali, ma che prende le mosse dal celebre Rapporto alla Commissione Trilaterale, tradotto in Italia nel 1977 con prefazione di Giovanni Agnelli: non è certo una strana combinazione. Piuttosto un manuale che impone il verbo della governabilità per arginare sommovimenti sociali che rivendicano giustizia sociale, democrazia, diritti, redistribuzione del reddito. È l’inizio di un processo di spoliticizzazione dell’orizzonte democratico e di incubazione di una retorica sulla governance, intesa esclusivamente come processo di «forme organizzative e politiche di diretta espressione del contemporaneo neoliberalismo», piuttosto che come occasione di redistribuzione dei processi decisionali verso il basso, in favore di soggetti non appartenenti alla struttura gerarchica dei poteri economico-politici esistenti. Sono Margaret Thatcher e Ronald Reagan che si affacciano, in compagnia dei Chicago boys, fino all’ortodossa austerità tedesca.

Così Arienzo sintetizza perfettamente lo stato dell’arte. Nell’ultimo decennio è uscita sconfitta l’ipotesi di una «governance politica dell’economia» che la Commissione europea aveva descritto nel Libro bianco del 2001, insistendo particolarmente sui princìpi di «apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza». Nella bibliografia commentata è ricordato un volume collettivo che provò a confrontarsi a viso aperto con quell’opzione, insistendo sugli spazi di azione dei movimenti sociali europei e globali: Governance, società civile e movimenti sociali. Rivendicare il comune (Ediesse, 2009). Nello stesso decennio ha preso sempre più corpo una «governance economica della politica e della società», fautrice di uno Stato regolatore minimo, imbevuta di neocorporativismo, capace di conservare i rapporti di potere esistenti e al contempo di colonizzare l’immaginario collettivo.

Una partita ancora aperta

È la nuova ragione dell’ordine neo-liberale (per dirla con Dardot-Laval, da poco tradotti per DeriveApprodi) che diventa «governance commissaria di mercato», in grado di «commissariare le politiche economiche degli Stati» e governare le forme di vita degli individui, nel «gestire e amministrare il loro capitale umano», così come gli spazi dei «processi aggregativi», tanto reali, quanto virtuali. Eppure Alessandro Arienzo ci invita a non considerare conclusa la partita. Tra i «vuoti e gli scarti della democrazia» (riprendendo un lavoro curato dallo stesso Arienzo e da Diego Lazzarich, Esi, 2012) si apre l’urgenza di riconoscere il carattere politico e conflittuale che la governance inscrive nei rapporti di potere. È quello il terreno dove sfidare le derive neo-oligarchiche e tecnocratiche. Magari con il protagonismo di soggetti collettivi consapevoli del fatto che gli spazi politici di azione sono quelli locali – per un nuovo diritto alla città – insieme con quello continentale – per un’Europa politica e sociale.