Il «profondo rimpianto» espresso di recente da Filippo del Belgio per le vicende coloniali in Congo, è talmente tardivo (praticamente un inedito, dopo tutto questo tempo) e vago da meritarsi una pronta ritorsione sulle statue di Leopoldo II ancora in circolazione: da puntellare se necessario, avendo però cura di aggiungere in calce una sintesi delle gesta esemplari che hanno fatto passare alla storia il bisnonno dell’attuale sovrano belga. In modo da rilevare che «il giudizio sull’operato di Re Leopoldo rimane oggi del tutto negativo e il caso del Congo è uno dei più citati per condannare le atrocità e l’ingordigia del colonialismo europeo».

LO HA SCRITTO Arthur Conan Doyle nel 1909, senza timore di essere smentito nei secoli a venire. Ed è un giudizio perfino moderato, rispetto ad altri passaggi del j’accuse affidato quello stesso anno dallo scrittore britannico a The Crime of the Congo, che appare ora nella sua prima traduzione italiana (Arthur Conan Doyle, Il crimine del Congo, a cura di Giuseppe Motta, ed. bordeaux, pp. 165 euro 14). Cui gioverà, speriamo, l’involontario lancio promozionale di re Filippo. Che Leopoldo II neanche lo cita nella lettera inviata per i 60 anni dall’Indipendenza, lo scorso 30 giugno (mentre l’epidemia di Black Lives Matter contagiava anche le sue statue), al presidente dell’ex Congo belga, ex Zaire e attuale Repubblica democratica del Congo, Felix Tshisekedi.

CONAN DOYLE la pensa con quanti considerano «il crimine commesso nelle terre del Congo dal Re Leopoldo del Belgio e dai suoi sostenitori come il più grande mai conosciuto nella storia dell’umanità». Mancavano da scontare le due guerre mondiali e il Congo (qualsiasi cosa voglia dire Congo per le 300 etnie abitanti in un territorio grande undici volte il Belgio) era ignaro di quanto sangue sarebbe dovuto scorrere ancora, per effetto del via libera da parte della comunità internazionale, nell’ambito della spartizione dell’Africa sancita dalla Conferenza di Berlino nel 1884-85, al capriccio personale del re di un piccolo stato europeo che previa «conquista» da parte di Stanley, il Maradona degli esploratori ingaggiato senza badare a spese, impianta in questa considerevole porzione del continente la sua riserva privata di grandeur.

DALLA BRUTALITÀ del sistema coloniale belga prima e dopo Leopoldo, con imprecisati milioni di morti, s’irradia una striscia di stragi e vittime eccellenti. Per l’omicidio di Patrice Lumumba dopo l’Indipendenza ritroviamo a braccetto con i belgi gli Stati Uniti, che furono i primi ad aprire ufficialmente alla bizzarria dello Stato libero del Congo (gli altri, a cominciare dal quel «credulone» di Bismarck, si accodarono).

IL VERSANTE più genocidiario invece ha un picco nella cosiddetta Guerra mondiale africana (1998-2003 e altri 3 milioni di morti come minimo) e prosegue oggi nell’instabilità cronica di ampie regioni sottomesse agli umori nefasti delle bande armate e dell’esercito che dovrebbe contrastarle. A Kinshasa, ex Leopoldville, una classe politica affetta da forme terminali di corruzione amministra l’accesso delle multinazionali a coltan, oro, diamanti, petrolio, tutto ciò che c’è sotto e sopra il Congo.
Questo Sir Arthur Conan Doyle non poteva immaginarlo e il mito del libero commercio non era in discussione, se non per difenderne i principi. A farlo arrabbiare, oltre agli accordi commerciali disattesi, c’era però «l’odioso pretesto di filantropia» sbandierato all’inizio di quello che si rivelerà invece colonialismo predatorio all’ennesima potenza.

La gomma è nel suo momento di massima gloria sui mercati internazionali e anche le quotazioni dell’avorio non scherzano. Il re si fa presto due conti e passa all’incasso. A blindare il business, anche quando sarà lo stato del Belgio a rilevare l’attività, nazionalizzando il Domaine Privée del monarca, la totale corrispondenza d’intenti tra compagnie private e amministrazione coloniale. I più diversi crimini umanitari vengono commessi in nome del profitto: la sottrazione delle terre, le uccisioni indiscriminate, le mutilazioni punitive, torture come l’infame chicotte, a margine di un sistema basato sul lavoro forzato, con forme di schiavitù molto simili a quella che i trattati dicevano di voler estirpare, sono una costante nel macabro parco-giochi africano di Leopoldo II.

AL SERVIZIO di questa controinformazione umanitaria Conan Doyle mette una scrittura limpida e connettiva, che impila con scrupolo le testimonianze esistenti su quanto viene nascosto nel cuore di tenebra congolese. Il procedere ordinato, facile a dirsi, ricorda il modo in cui il suo personaggio letterario di maggior successo, quello Sherlock Holmes che considera un po’ il suo «schiavista», condurrebbe un’indagine. Per il ragionamento politico della sua inchiesta-denuncia, l’autore si avvale dei dati più disparati, dai ricavi astronomici dell’impresa coloniale belga al tasso dei suicidi tra i nativi. Dimostrando se necessario la «stretta relazione tra la produzione e il numero di cartucce utilizzate» che era venuta a crearsi.

Le sue fonti sono i rapporti di vari consoli britannici, La question congolaise del padre gesuita Vermeersch, le conclusioni oscurate della commissione d’inchiesta belga, King Leopold’s Soliloquy del suo compagno di battaglia Mark Twain e molto altro. Con tanto di simpatia per l’«eloquente politica del governo italiano, che si è rifiutato di impiegare i propri ufficiali in quest’opera da carnefici», quando l’Italia riconsidera l’idea iniziale di creare un avamposto commerciale e insediare dei coloni.
Sir Arthur s’indigna perché pochi hanno avuto qualcosa da ridire, quando si poteva ancora evitare il massacro. Qualcuno a un certo punto alzerà la voce, ma solo per il mancato rispetto degli accordi commerciali. L’Inghilterra, complice un’opinione pubblica di cui Conan Doyle è apripista autorevole e le pressioni della Congo Reform Association di cui lo scrittore è infaticabile attivista, con la crescente consapevolezza di quanto stava accadendo alle popolazioni locali del Congo arriva a mettere in dubbio il riconoscimento dell’annessione allo stato belga. Troppo poco e troppo tardi. E da quale pulpito. Ma questo Sir Arthur non lo ammetterà mai, essendo in lui il patriottismo radicato quanto le passioni per lo spiritismo, la massoneria, il giornalismo sportivo e l’umanità.

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Scheda. Birra per tutti e a caro prezzo

«Heineken in Africa – La miniera d’oro di una multinazionale europea» (add editore, pp. 331, euro 16) racconta come uno a caso tra i giganti mondiali dell’industria della birra abbia lucrato su qualsiasi cosa, forza lavoro, produzione agricola, diritti, conflitti armati, seminando corruzione, evasione fiscale, problemi sanitari e promesse da marinai sullo sviluppo che le fabbriche avrebbero portato – come le fandonie di Leopoldo II – pur di realizzare profitti sfrenati. In Congo Heineken resiste da 80 anni a tutti i rovesci con audaci resilienze. Il marchio della mitica filiale Bralima campeggia sulle facciate delle scuole e dei commissariati. Gli interessi del colosso olandese, rappresentati dal suo «braccio africano», la belga Ibecor, hanno sempre interagito in modo spregiudicato con la storia turbolenta del paese. Ma nel lavoro di Olivier Van Beemen il Congo è solo un eclatante frammento del desolante mosaico che il giornalista ha ricostruito muovendosi tra i vari paradisi africani della birra, nei meandri di una giungla commerciale senza morale. Questa nuova edizione è uscita a febbraio ma funziona meglio ora che il caldo rende a molti inevitabile il piacere di una birra ghiacciata, come monito al consumo responsabile. (m. bo.)