Il ritorno della politica in chiave perlopiù sovranista entra rapidamente in fibrillazione con la dimensione economica. La critica del sovranismo politico nelle campagne elettorali è rivolta ai processi di globalizzazione e di delocalizzazione produttiva, mentre poi una volta assunte le leve del comando si concentra principalmente sulle scelte di politica monetaria. Ad agosto l’accusa di mancate politiche monetarie espansive era mossa da Recep Tayyip Erdogan alla sua banca centrale che non stava sostenendo a sufficienza la lira turca.

Il caso simbolicamente più rilevante risale a ottobre quando Donald Trump attacca la propria banca centrale, di cui ha da poco nominato il presidente Jerome Powell, dichiarando che «la Federal Reserve è impazzita». L’accusa è di aumentare i tassi di interesse a fronte degli shock borsistici di Wall Street e del rallentamento economico globale. Lo scontro istituzionale è senza precedenti nei toni e sintomo di contraddizioni profonde. Questa tensione istituzionale negli Usa è continuata, fino all’ulteriore aumento dei tassi adottato dalla Fed a metà dicembre, tant’è che a Natale il Segretario statunitense al Tesoro, Steve Mnuchin, ha dovuto tranquillizzare tutti sul fatto che il presidente della Fed non sarebbe stato rimosso. Un’eventualità istituzionalmente impraticabile, stante le regole vigenti, ma che nel suo essere negata sottolinea implicitamente il grado di scontro raggiunto.

Per ora appare piuttosto curioso che proprio nell’unico paese in cui l’economia non rallenta vi sia una così vigorosa contestazione per la normalizzazione monetaria in corso. La teoria imporrebbe che, una volta superata la crisi, le politiche monetarie finiscano la fase ultra-espansiva per riportare l’economia nei consueti binari e, perché no, per essere nuovamente pronti a impiegare la liquidità per fronteggiare una nuova crisi. Altrimenti il rischio sarebbe quello di vedere spuntata l’unica arma a disposizione. Ecco allora il corto circuito sovranista.

L’economia reale mondiale rallenta, la riduzione di vendite di automobili, tra cui quelle americane, in Cina continua, e in questi giorni emergono i dati negativi di Apple, probabilmente sempre riconducibili al calo della domanda nel Celeste Impero : tutto ciò spaventa la politica Usa che sui propri colossi industriali punta per un più stabile rilancio. Trump teme per il suo futuro politico, ma curiosamente scommette proprio su quel modello economico andato in crisi dieci anni fa. Globalizzazione trainata dai suoi campioni, dunque non autarchica come in qualche modo faceva ipotizzare al momento della sua elezione, e soprattutto crescita ancora fondata sulla finanziarizzazione e sul debito.

Continuare a offrire moneta facile in tempi di seppur stentata ripresa significa confermare il modello precedente, quello che soccorre l’economia principalmente sul lato della finanza.

Non a caso il Fondo monetario internazionale ha appena aggiornato l’incidenza del debito globale sull’economia certificando per il 2017 (ultimo anno disponibile per i 190 paesi monitorati) un debito record di 184 mila miliardi di dollari, pari al 225% del Pil mondiale, traducibile in 86 mila dollari procapite. I paesi più indebitati sono proprio Usa, Cina e Giappone che da soli rappresentano oltre il 50% del debito complessivo. In definitiva l’alternativa economica sovranista a stelle e strisce si riduce ad approfondire il piano iper-competitivo centrandolo ancor di più sui propri giganti industriali e, soprattutto, favorendo la loro crescita attraverso liquidità facile e indebitamento privato e pubblico (altro tema infatti sarà probabilmente lo sforamento del tetto sul bilancio federale).

Come se la crisi esplosa nel 2008 non ci fosse mai stata. Un modello piccolo piccolo per gli Usa e difficilmente imitabile per tutti i suoi estimatori in giro per il mondo.