Fuori dalla Corte nel distretto di Haidian, a Pechino, Zhou Xiaoxuan brandiva un cartello con su scritto «vincerò».

Ma non era sola. Ieri, a darle sostegno c’erano anche un centinaio di persone. Prima di entrare in aula per affrontare la sentenza che l’ha resa il volto del movimento #MeToo in Cina, Zhou non ha negato che, qualunque sarà il verdetto, l’udienza porrà le basi per una nuova consapevolezza femminile.

E NON SOLO PERCHÉ è uno dei primi processi di molestie sessuali, ma anche perché l’imputato è Zhu Jun, noto presentatore televisivo e volto di punta della CCTV. La vicenda è accaduta nel 2014, quando Zhou era una stagista all’emittente tv: in quel periodo, secondo i racconti della ragazza, ma negati dal presentatore, Zhou sarebbe stata molestata dall’uomo. La ragazza ha riportato l’episodio sul web solo quattro anni dopo, raccontando che si era rivolta alle autorità per denunciare l’aggressore.

ED È IN QUESTO FRANGENTE che Zhou ha conosciuto i limiti culturali sulla tutela di genere: la polizia l’ha esortata a non sporgere denuncia contro il conduttore televisivo, che avrebbe avuto un danno d’immagine.

Su questa linea, d’altronde, si muovono da tempo gli avvocati di Zhu che nel 2018, subito dopo la denuncia, avevano chiesto un risarcimento per danni morali. Ora tocca al tribunale di Haidian stabilire la colpevolezza di Zhu, ma la sentenza segnerà un punto di svolta per le condizioni delle donne in Cina.

I numeri delle denunce per molestie sessuale sono ancora troppo bassi, forse a causa del ritardo con cui è iniziato il movimento #MeToo (noto in Cina come #WoYeShi). Il primo significativo caso risale al 2018. Luo Xixi, ex studentessa dell’Università Beihang di Pechino, ha raccontato sul suo profilo Weibo le molestie subite 13 anni prima dal professor Chen Xiaowu, successivamente licenziato.

SEBBENE IL SUO POST sia diventato virale, la campagna #MeToo non ha avuto molto seguito a causa della censura sul web che, allo stesso tempo, ha fatto nascere un nuovo linguaggio fatto di emoji e omofoni per diffondere il messaggio di lotta contro le violenze di genere.

Ma anche per gli arresti di numerose attiviste accusate di creare disordini sociali, una formula molto vaga utilizzata da Pechino per incarcerare dissidenti e attivisti vari.

Ma è l’assenza di una legge adeguata che determina una ritrosia nel denunciare gli aggressori. Solo lo scorso maggio è stato introdotto un nuovo codice civile, in vigore dal 1° gennaio 2021, in cui si definiscono per la prima volta le azioni che possono costituire molestie sessuali: l’articolo 1.010 intende per molestia ciò che «viene compiuto contro la volontà di un’altra persona attraverso le parole, immagini e azioni fisiche», integrando un’interpretazione più precisa della legge del 2005 che riconosce il reato di molestia sessuale. Molte donne cinesi sono riluttanti a raccontare pubblicamente di aver subito una violenza sessuale perché, molto spesso, diventano a loro volta vittime di una cultura patriarcale che sminuisce il dolore di un ingiusto trauma, subendo discriminazioni in ambito lavorativo e familiare.

QUALCOSA PERÒ si sta muovendo anche per la violenza sui minori. Ieri, nella città di Harbin, un uomo di 54 anni – con precedenti penali per reati sessuali – è stato condannato alla pena capitale per aver violentato lo scorso agosto una bambina di quattro anni, sua vicina di casa.

Una pena ritenuta congrua ai danni fisici e mentali della minore. Secondo il diritto penale cinese, per lo stupro è previsto da 3 a 10 anni di reclusione, ma se la vittima ha meno di 14 anni, la pena è più pesante.