Il duca-principe Philip of Edinburgh, uno dei pochi uomini del Novecento a godere appieno il privilegio assoluto di essere stato per 73 anni marito di sua moglie, è spirato ieri ad appena un soffio (meno di tre mesi) dal traguardo secolare. Aveva destato debita preoccupazione un suo ricovero ospedaliero nelle scorse settimane: le notoriamente stitiche dichiarazioni ufficiali sulla salute dei membri della reale famiglia avevano lasciato trapelare la notizia di un intervento chirurgico al cuore e poco altro. Il consorte più longevo nella storia della monarchia britannica era stato da poco dimesso ed era tornato nel castello familiare a Windsor, dove ha speso gli ultimi giorni a fianco della moglie Elizabeth II, novantaquattrenne.

Era nato il 10 giugno del 1921 a Corfù come principe di Grecia e Danimarca, ma l’anno seguente la famiglia veniva esiliata in seguito alla rivolta militare che avrebbe dato origine alla repubblica ellenica. Avrebbe sposato Elizabeth Windsor nel 1947. Mentre il trapasso miete l’internazionale cordoglio di prammatica, i giornali traboccano di cogitabonde riflessioni sull’abnegazione di un uomo che avrebbe cancellato la propria individualità e aspirazioni per diventare l’appendice decorativa di un’istituzione feudale che aveva costruito efficacemente il proprio mito soprattutto grazie a delle regine più che a dei re (le due Elizabeth ovviamente, e Victoria) e che senz’altro ancora oggi deve anche a quello l’intrigante mistero della propria sopravvivenza. Grossa parte di quella individualità era la carriera militare in marina, alla quale l’allora giovane nipote dell’ex re di Grecia, virgulto di un ramo cadetto (rametto) dell’aristocrazia europea, si era dato con marziale fervore, diventando uno dei più promettenti giovani tenenti di vascello della Royal Navy e navigando coraggiosamente i flutti tumultuosi dell’oceano indiano nel secondo conflitto mondiale.

IL MATRIMONIO POSE FINE a tutto questo, obbligandolo a specializzarsi nel ruolo maritale. Alla poetica giustizia nella vicenda di un uomo nato per comandare del tutto svuotato di qualsiasi autorità o ruolo istituzionale autonomo si aggiungono le ancor più castranti altre sue rinunce: cocente quella al cognome Mountbatten (così de-germanizzato dall’originale Battemberg per evidenti obblighi coniugali in un’epoca in cui i rapporti con la Germania non erano proprio idilliaci), i suoi titoli, la religione greca ortodossa (Londra val bene una messa) e poi non si riesce a capire cos’altro esattamente, giacché almeno fino a ieri i membri maschi delle famiglie reali europee mascheravano immancabilmente la propria pochezza in una divisa militare, sorte cui nemmeno i suoi nipoti William e Harry, oggi protagonisti di una titillante pseudo-faida fratricida, sono riusciti a sottrarsi.

TUTTO IL RESTO – 143 visite ufficiali con la moglie e 22.219 eventi ufficiali «da solista», sport immancabilmente equestri, cause benefiche socio-ambientali compensate dalla saturazione implacabile dell’atmosfera con trilioni di tonnellate di anidride carbonica emesse dagli aviogetti di famiglia e centinaia di animali di tutto il mondo ammazzati, mummificati e appesi sul caminetto – fu da lui svolto con la rimarchevole obbedienza di un figurante pieno di abnegazione mentre la moglie, salita sul trono improvvisamente nel 1952 a 26 anni, era impegnata nel (non?) facile compito di traghettare l’istituto monarchico inglese dalla sacralità dei due corpi del re all’era Kardashian. Un elegante appendiabiti, che ha pazientemente tagliato nastri, posto prime pietre, bombardato uditori in tutto il globo con discorsi ufficiali che aveva il commovente ardire di scriversi da solo.

Una vita, insomma, non esattamente di stenti, vissuta alla quasi-grande almeno fino al cappottamento della Range Rover d’ordinanza che furtivo continuava a guidare nelle silenti strade rurali di Sandringham appena due anni fa (e che coinvolse una malcapitata automobilista). Quella di un marito e padre esemplare, comprimario di una moglie investita dalla sacrosanta difesa del privilegio di nascita. Una vita di eterno marito dostojevskiano, macchiata solo da quelle che i media definiscono di solito, con la consueta bonarietà, «gaffes» (celebri quelle durante le visite di stato in Cina e Australia) ma che invece erano sprazzi impenitenti del flusso di coscienza sessista e razzista di una mascolinità bianca privilegiata finalmente – e tardivamente – sotto scrutinio quando non sotto attacco.