Come per la crisi del debito pubblico, anche la crisi climatica viene raccontata come un’oggettiva emergenza, rispetto alla quale siamo tutti parimenti responsabili e condividiamo tutti lo stesso destino.

È così che l’angoscia di fronte ad un incerto futuro dell’uomo della strada trova rispecchiamento nelle parole pronunciate a Davos da James Dimon, amministratore delegato di JP Morgan Chase, una delle più potenti banche del pianeta: «Il cambiamento climatico è una sfida globale che ha presentato, e continuerà a presentare, rischi per le imprese e per le comunità in tutto il mondo».

Peccato che, dagli accordi di Parigi del 2015 sulla riduzione dei gas serra, l’uomo della strada abbia continuato a cercare di sbarcare il lunario, mentre la banca di James Dimon abbia investito sulle industrie di combustibili fossili qualcosa come 195.633 miliardi di dollari.

Peraltro, in buona compagnia, visto che, secondo il rapporto «It’s the finance sector, stupid!» di Greenpeace International, l’insieme delle 24 banche più grandi del pianeta ha complessivamente investito sui combustibili fossili ben 1.400 miliardi di dollari.
Se a questo aggiungiamo i 26 miliardi di dollari investiti sui fossili da tre grandi fondi pensione (Ontario Teacher’s Pension Plan, Canada Pension Plan Investment Board e PensionDanmark) e le coperture fornite ai flussi di denaro dai colossi assicurativi (AIG, Prudential, Sompo, Tokio Marine e Lloyd’s), il quadro, comunque incompleto, risulta più che evidente: se anche fossimo tutti sulla stessa barca, c’è qualcuno al ponte di comando che macina profitti giganteschi cercando di farla affondare.

E se quel qualcuno, improvvisamente, propone la svolta ’verde e sostenibile’ il minimo che bisognerebbe fare è guardarsi alle spalle. Un esempio per tutti riguarda il più grande fondo d’investimento del mondo, BlackRock, il cui valore di asset gestiti ha superato i 7.000 miliardi di dollari.
Sempre a Davos, l’Ad Larry Flink, dichiarando la finanza come migliore amica di Greta, ha promesso un’inversione di rotta e ha annunciato un investimento di 100 milioni di dollari (sic). Peccato che, nel frattempo, BlackRock finanzi le energie fossili per 87 miliardi di dollari e che, assieme alle sue due “sorelle” della speculazione finanziaria, Vanguard e State Street, abbia raggiunto i 300 miliardi di dollari di investimenti su carbone, petrolio e gas.

Come appare evidente, i grandi interessi finanziari, dopo aver assunto per decenni l’ambiente come condizione, gratuita e infinita, del processo di valorizzazione economica, sono passati da tempo -e ora più che mai- a considerarlo come elemento diretto della produzione di profitti.

Dal capitalismo grigio che utilizzava la natura gratuitamente a monte, con l’estrazione di materie prime, e a valle, con lo smaltimento dei rifiuti, stiamo passando al capitalismo verde che mette direttamente l’ambiente -e la sua finta salvaguardia- al centro della valorizzazione economica.

E’ per favorire questo processo che persino la rigidissima Unione Europea, che sulla trappola del debito ha costruito il suo telaio, improvvisamente scopre che il patto di stabilità potrebbe essere rivisto, escludendo dallo stesso gli investimenti «verdi».

La crisi climatica non è un meteorite giunto a noi dallo spazio, ma il frutto di un sistema economico fondato, in una prima fase, sulla produzione indotta di bisogni e sulla sovrapproduzione di merci destinate a “soddisfarli” e, in una seconda fase, sulla finanziarizzazione dell’economia, della società, della vita e della natura.

Di crisi climatica ne parlano gli indegni e ne parlano gli indignati. Occorre scegliere da che parte stare.