Da anni ormai, in occasione di ogni tornata elettorale, si registra un mancato sfondamento delle liste di sinistra, pur in presenza di un vistoso e progressivo scivolamento verso il centro del Partito democratico.

Non scatta insomma nessun automatismo che permetta agli eredi più radicali della tradizione del movimento operaio italiano di conquistare una parte del campo lasciato libero dall’ala che a quella vicenda si richiama in maniera ormai sempre più sbiadita. Anche quando quest’ultima patisce una netta emorragia di consensi.

I voti in libera uscita ingrossano le cifre o dell’astensione, o di movimenti che tendono a sfuggire agli schemi politici dell’ultimo ventennio.

Il fatto è che se a questo scenario, ormai costante, si continua a guardare da un’ottica tutta elettoralistica, si corre il rischio di non riuscire mai a sciogliere il rompicapo, ed anzi di adagiarsi nella speranza che lo smottamento del voto popolare dal Pd finirà prima o poi, come per inerzia, per rianimare chi di quei voti si presenta come l’erede designato.

Per capire che di illusione si tratta, basta una piccola radiografia del voto, e ci accorgiamo che, dal punto di vista della sociologia elettorale, la percezione che si ha delle due componenti della sinistra non varia di molto: il fenomeno che nelle grandi città caratterizza il voto democratico, asserragliato nei quartieri borghesi e “civilizzati” e volatilizzato nelle periferie “degradate” riguarda, in sedicesimo, anche le liste radicali.

Bisogna dunque provare ad allargare lo sguardo e, a costo di essere schematici, a leggere l dinamiche elettorali alla luce dei grandi sconvolgimenti sociali dell’ultimo quarto di secolo. Perché la politica o si dà l’obiettivo dello sbocco in termini egemonici del conflitto sociale o è destinata ad una deriva tecnocratica che la svuota di ogni senso (a proposito dell’ondata di astensionismo in auge in tutta Europa…).

La crisi del ciclo lungo del fordismo – che ha trovato nell’eclatante esplosione del 2008 un’epifania di fenomeni in atto da almeno un trentennio – ha prodotto sul conflitto sociale una doppia conseguenza: da una parte la sua proliferazione, il suo allargamento cioè a fasce della società che nella stagione precedente avevano composto quella “classe media” che aveva costituito il cemento ideologico e materiale di un assetto egemonico in espansione; dall’altra la sua perdita di centro: il blocco storico imperniato sulla classe operaia, a causa della crisi della grande fabbrica fordista e di modelli antichi di socialità, oltre che di una serie di sconfitte politiche, si è frantumato. Dunque un conflitto più esteso, che però ha perso in capacità di proiezione egemonica ciò che ha guadagnato in termini di estensione.

Di fronte a queste tendenze, come hanno reagito i gruppi dirigenti di sinistra? Direi che, a seconda delle tradizioni, ha oscillato tra una risposta di tipo residuale ed una di tipo impolitico. La risposta impolitica è stata propria dei movimenti sorti già da decenni sull’onda dello scoppio della prima “crisi spia” del sistema fordista (gli eredi del “lungo Sessantotto”).

Questo tipo di risposta ha forse fatto prima e meglio i conti con il carattere pluralistico assunto dal conflitto sociale nella nuova stagione, ma si è come adagiata su questa intuizione, nell’illusione che la dilatazione degli ambiti del conflitto fosse destinata ad assumere di per sé un carattere “neo-costituente”, e eludendo quindi la necessità di elaborare chiare ricette di natura politica e sociale – anzi, sviluppando un certo grado di subalternità alla costruzione dell’Europa reale come via acriticamente obbligatoria dalla quale passare nel processo di allargamento del conflitto. Nel frattempo, le esigenze storiche dei subalterni venivano come fagocitate dal carattere pluralistico del conflitto, fino a divenire quasi afone.

La dimensione orizzontale del conflitto “plurale” non va demonizzata, perché è quello il campo all’interno del quale è necessario operare la ricomposizione di un blocco storico, nuovo, di opposizione alla feroce avanzata della contro-rivoluzione neo-liberale. Ma per produrre un cambiamento di largo respiro è altrettanto necessario, e urgente, mettere in campo un progetto che contempli anche la dimensione verticale dell’egemonia, della trasformazione delle strutture sociali e istituzionali.

La risposta residuale ha consistito nella difesa dei residui del blocco storico di riferimento tradizionale, sempre operante ma in fase di progressivo sgretolamento.

Chi ha sposato questa risposta, ha operato per limitare i danni, una rincorsa impossibile a porre delle toppe su un corpo ferito da fenomeni incalzanti di redistribuzione verso l’alto della ricchezza e del potere di classe. Di qui l’oscillazione tra il radicalismo che le sofferenze imposte ai ceti subalterni suggerivano e la subalternità al richiamo coalizionale, perché comunque accettando quel terreno ci sarebbe stato sempre un “meno peggio” da evitare. Un tipo di risposta che ha caratterizzato soprattutto gli eredi della sinistra storica, che un po’ ovunque hanno visto assottigliarsi le proprie fortune elettorali in parallelo con l’erosione del blocco sociale che si intendeva rappresentare.

Al di là degli steccati della sinistra storica, si deve aprire un campo popolare ancora inesplorato di rappresentazione politica del conflitto, rompendo anche qualche tabù (tra cui l’importanza della leadership e dei canali di contro-informazione di massa). La disgiuntiva che ora si presenta tra la difesa delle istituzioni e la resa al populismo è una falsa disgiuntiva.

Le istituzioni storicamente poste a garanzia dell’avanzamento dei ceti subalterni sono state svuotate: ne resta solo un guscio vuoto che si vuol riempire di contenuti autoritari.

Allora forse la battaglia si gioca tutta nell’ambito del populismo. Dagli equilibri interni a quel campo sorgeranno istituzioni nuove. Se non si investe sulla messa in campo di un progetto populista democratico, si lascerà terreno fertile per un populismo autoritario ed escludente che rischia di forgiare le istituzioni di domani.