In un museo le opere possono anche smarrirsi. All’interno della Galleria Estense di Modena, nel 1862, qualcuno si accorse di un bassorilievo antico abbandonato in un bugigattolo. Che cosa era il marmo appena (ri)scoperto, e da dove veniva? Smarrimento inspiegabile, a meno di non pensare che la disattenzione verso la scultura fosse causata dalla rarissima, difficile iconografia: un serpente si avvolge attorno al corpo di un giovane nudo, alato e con piedi caprini; il personaggio è all’interno di un elemento ovoidale (scopriremo poi che si tratta dell’uovo cosmico), a sua volta avvolto dalla fascia dello zodiaco.
La storia di questo marmo viene raccontata in uno dei capitoli di Il primo giorno del mondo di Mino Gabriele (Adelphi «Imago», pp. 429, 70 tavv. a colori f.t., 30 ill. b/n, € 38,00). Il titolo deriva proprio dal giovane del bassorilievo – Phanes, «lo Splendente» – che rappresenta la luce primigenia, il momento in cui si genera l’universo secondo la religione di Mithra – uno dei più importanti culti orientali diffusi durante l’età imperiale romana – e secondo la tradizione orfica. A guardare questa (come tante altre immagini legate al culto mitriaco) verrebbe da dire che non è da prendere alla lettera la famosa affermazione di Gustave Flaubert «Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo». I culti greco-romani, infatti, andarono incontro a un declino inarrestabile, ma gli uomini del tempo furono comunque pronti a intercettare altri credo religiosi e a confidare nelle relative figure simboliche.
A Padova, Firenze, Weimar
Gabriele ci racconta come il bassorilievo antico, prima di essere abbandonato a se stesso nel museo modenese, avesse goduto di una particolare attenzione durante il Rinascimento, specialmente in area veneta: verso il 1540, Tiziano Minio lo imita per raffigurare il Sole in uno stucco dell’Odeo del dotto Alvise Cornaro a Padova, un luogo destinato alla musica e a spettacoli; lo stesso artista lo riprende nella loggia della Libreria Sansoviniana a Venezia; in anni ravvicinati lo si incontra di nuovo a Padova nel chiostro del convento cassinese di Santa Giustina e in un affresco di Francesco Salviati a Firenze, ancora come simbolo del Sole. Non molti anni dopo, l’immagine di Phanes-Mithra ricompare in un’incisione dal significato alchemico e poi nuovamente in un magnifico disegno di Pellegrino Tibaldi a Weimar, con un’allegoria dell’anno (lo assicura una lunga scritta cinquecentesca a margine). È tutto un ramificarsi di interpretazioni e di immagini che discendono dal rilievo di Modena modificandone via via i tratti; un lungo percorso «in un tempo ormai lontano, molto lontano, da quel primo, abbagliante dies natalis mundi, dove e quando tutto ebbe inizio».
Il secondo capitolo del libro è dedicato alle decorazioni di alcuni ambienti che corrispondevano alla biblioteca del convento di San Francesco ad Agnone (Isernia); si tratta di quattro controsoffitti in legno con una serie di immagini dipinte nella seconda metà del Settecento. Ma qui non entra nessuna ventata illuministica e nessuna tematica neoclassica; al contrario, Mino Gabriele dimostra che si tratta di una sequenza di elaborate allegorie alchemiche. L’anonimo ideatore di questo ciclo combina assieme fonti diverse, tra cui spicca l’immancabile Vincenzo Cartari, autore di un catalogo di immagini degli dèi pagani che ebbe straordinario successo tra Cinque e Seicento; tra le fonti c’è anche l’Atalanta fugiens di Michael Maier (1617), un trattato di emblematica alchemica; questo è uno dei campi di studio di Gabriele, che pochi anni fa, sempre per Adelphi, aveva curato – con la solita grande erudizione – una bella edizione degli Emblemi di Andrea Alciato.
Draghi, fanciulle, regine, serpenti Da repertori come quelli di Cartari o di Maier si affacciano poi venerati classici come Ovidio e Plinio, Plutarco e Macrobio; ma si incontrano anche autori per nulla familiari, come Ostane, Cleopatra (che non è la regina d’Egitto, ma un alchimista greco-egizio) o Artefio. Da questa commistione di fonti iconografiche e testuali diverse per epoche e per ambiti affiora un mondo di draghi, fanciulle, regine, serpenti che si mordono la coda, alberi verdeggianti; un mondo di viluppi pericolosi, di personificazioni enigmatiche, di imprevisti sincretismi, che serve a simboleggiare trasmutazioni chimiche ancora circonfuse dal fascino del mistero più che dall’esattezza della scienza.
Per spiegare le singole allegorie alchemiche del convento di Agnone, Gabriele è costretto dunque a compiere lunghe peregrinazioni che lo portano verso altre immagini non meno criptiche, a loro volta connesse a simbologie altrettanto ermetiche: per alludere alla trasformazione alchemica, ad esempio, troviamo una donna sulla cui testa fiorisce una pianta; oppure, per simboleggiare la difficile lavorazione del mercurio, vediamo un uomo ferito a morte il cui membro si estende in un albero colmo di frutti.
Ma di sicuro l’incontro più sbalorditivo è quello con la ragazza-veleno. Nel Secretum secretorum («Segreto dei segreti»), un testo medioevale che andava sotto il nome di Aristotele, il filosofo mette in guardia il suo illustre allievo Alessandro Magno da un dono insidioso che intendeva fargli la regina d’India: una bellissima fanciulla che era stata imbevuta negli anni con un veleno, così che l’uomo che si fosse lasciato sedurre sarebbe morto a contatto col suo sguardo o col suo respiro o durante l’accoppiamento. La storia – ennesima variante dell’idea che la bellezza femminile sia congiunta a un danno incombente – non nasce col Secretum secretorum, ma ha origine alcuni secoli prima proprio in India; da qui compie un viaggio stupefacente che la porta in Persia e poi nel mondo arabo, per finire poi nel Secretum, quindi nella raccolta di emblemi di Maier e, da qui, fino al convento di Agnone. Eppure i Francescani di questo centro del Molise dovettero essere «ignari di tanta migrazione e favolosa filiazione».
I viaggi della ragazza-veleno
A stupire non sono tanto i lunghi viaggi della ragazza-veleno e degli altri simboli dei dipinti (che solo l’acribìa dello studioso riesce a ricostruire), quanto la sopravvivenza del sapere alchemico in un luogo così defilato e in un’epoca così tarda, un sapere che potrebbe essere riassunto dalla frase di un alchimista greco-egizio: «La natura delizia la natura, la natura vince la natura, la natura domina la natura». Agli occhi dei Francescani di Agnone, insomma, questo sapere e i suoi simboli avevano ancora una vitalità tale da consentirne una lettura edificante e spirituale.
Anche il successivo capitolo del libro prende le mosse da un oggetto concreto, in questo caso la medaglia progettata nella seconda metà del Cinquecento da Raffaello Aquilino. Mino Gabriele ne ha rintracciato diversi esemplari, a cominciare da quello del Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, esemplare con un valore aggiunto – per così dire – visto che è ancora legato a una lunga collana formata da una trentina di cilindretti d’avorio; ciascuno di essi è a forma di rametto con spine, il motivo araldico della famiglia Malaspina. Insomma, un pezzo sorprendente e del tutto adatto alla singolarità della medaglia di Aquilino. Quest’ultimo era un ebreo convertito, astrologo e autore di diversi trattati; uno di essi venne dedicato proprio alla medaglia: Breve dichiaratione d’una medaglia Maghen David, cioè scudo di David, così misteriosamente nominata. Già un titolo come questo ci mette sulla strada giusta per comprendere l’oggetto: non è una medaglia come tante altre realizzate nel tardo Rinascimento, ma un amuleto.
Gabriele apre a questo punto una lunga parentesi per parlare di amuleti e talismani e descrive un evento accaduto proprio nella seconda metà del Cinquecento, la liturgia con cui venne consacrato e, per così dire esorcizzato, un grandioso oggetto pagano: l’obelisco Vaticano, che Caligola aveva fatto portare a Roma nel I secolo d. C. e che nel 1586 era stato innalzato di fronte a San Pietro. Ben più piccola è la medaglia di Aquilino, ma è impressionante la quantità di scritte ebraiche e latine leggibili sulle due facce; scritte che si inseriscono in una fitta tessitura di figure geometriche basate su un pentagono e un quadrato. Altrettanto impressionante è la decifrazione a dir poco minuziosa di questa «sinergia nomi/geometria», di questo «studiato reticolo gerarchico di loci e nomina»; in pochi centimetri Aquilino cerca di distillare quanto Antico e Nuovo Testamento dicono «sul nome (e i nomi) del Padre, dei suoi principi angelici, e del Salvatore». Come spiega Gabriele, «si delinea così una medaglia/amuleto d’uso personale, che guida il percorso meditativo osservando e seguendo l’ordinata disposizione dei suoi simboli geometrici e delle annesse parole da pronunciare, al pari delle preghiere previste, sommessamente e interiormente». Eppure questa medaglia non era affatto rivolta agli studiosi; l’asola presente sul margine dimostra che veniva portata al collo e, come veniamo a sapere da un processo per sortilegio nel 1655, era ricercata dai soldati, convinti che proteggesse dalle ferite d’arma da fuoco: a volte la disegnavano e, addirittura, ingoiavano la carta che ne riportava il disegno.