Il ministro della Giustizia giapponese Yoshihisa Furukawa ha firmato una nuova esecuzione capitale, la seconda da quando è entrato in carica il governo del conservatore Fumio Kishida.

CON UN COLPO DI PENNA, è stata decisa la sorte di un uomo. Nella giornata di ieri, Tomohiro Kato, 39 anni, è stato giustiziato per impiccagione nel carcere in cui era detenuto a Tokyo. Kato è stato ritenuto responsabile di uno dei più gravi attacchi compiuti in Giappone, che causò la morte di sette persone e il ferimento di dieci.
È l’8 giugno del 2008, quando Kato, all’epoca 25enne, si lancia con un camion sulla folla che passeggia nel famoso e affollato quartiere Akihabara di Tokyo, uccidendo tre persone e ferendone due. Dopo essere sceso dal mezzo, Kato impugna un coltello e accoltella a morte quattro persone, compreso un uomo investito solo pochi istanti prima. Arrestato sul posto, il giovane dichiara di non avere avuto ragioni particolari per compiere le violenze, ma confessa di essere vittima di cyberbullismo e di aver scelto il famoso quartiere commerciale per «uccidere qualcuno, non importa chi». La strage ha provocato un forte choc in Giappone e un inasprimento delle leggi sul possesso di armi da taglio.

Durante il processo, l’avvocato difensore di Kato ha invocato l’infermità mentale del suo assistito, ma la corte distrettuale di Tokyo ha deciso di condannarlo a morte nel 2011. L’accusa, infatti, ha mostrato le immagini del giovane – che allora faceva il meccanico dopo aver fallito i test di ingresso all’università – mentre faceva dei sopralluoghi nel quartiere prima dell’attacco. L’uomo, secondo i pubblici ministeri, aveva presentato sul web il suo folle piano omicida, ricevendo solo commenti negativi. Nel 2015, la Corte suprema del paese ha confermato la decisione della condanna con l’aggravante della premeditazione.
In carcere, in attesa della pena capitale, Kato ha chiesto perdono per la strage: in una lettera inviata a un 56enne rimasto ferito durante l’attacco, ha ricordato come le vittime «si stavano godendo la vita e avevano sogni, un futuro luminoso, famiglie cordiali, amanti, amici e colleghi». La confessione è probabilmente l’effetto della funzione rieducativa del carcere, in cui il giovane ha passato troppo tempo, fino al suo ultimo giorno di vita.

È PRASSI che in Giappone i condannati trascorrano molti anni in celle di isolamento in attesa della pena capitale, che molto spesso viene loro comunicata con pochissimo preavviso, anche poche ore prima.
La pena di morte, di solito applicata per casi di omicidio plurimo in base a un’ultima revisione del Codice penale del 1873, è condannata da diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International. Le ong per la tutela dei diritti umani definiscono crudele e incostituzionale il trattamento riservato ai detenuti nel braccio della morte, perché non darebbe loro sufficiente tempo per contattare gli avvocati e presentare ricorso contro l’ordine di esecuzione.
Il velo sulla pena capitale in Giappone – il secondo paese del G7, oltre gli Usa, ad applicare tale condanna – è stato sollevato nuovamente nel 2021, proprio durante il governo Kishida: dopo una moratoria di due anni, il ministero della Giustizia ha firmato per l’esecuzione di tre impiccagioni. Nel novembre dello stesso anno, due detenuti nel braccio della morte avevano citato in giudizio il governo per essere stati avvisati con poche ore di anticipo della loro esecuzione.

RIMANGONO però inascoltati gli appelli delle ong: il paese democratico va avanti per la sua strada, forte del sostegno popolare. I sondaggi d’opinione rivelano che oltre l’80 per cento della popolazione approva la pena di morte, interpretata come forma di rispetto per i familiari delle vittime e come uno strumento per combattere la recidività dell’omicida. Attualmente ci sono 106 detenuti nel braccio della morte, in attesa del boia last minute.