Due del pomeriggio nell’aula del senato quando prende la forma dei numeri la maggioranza Renzi-Berlusconi che nuova non è, ma ufficiale nemmeno visto che tutti gli uomini del presidente del Consiglio si affrettano a negare: «Forza Italia è all’opposizione e ci resta». Altroché: non fosse per i voti berlusconiani non passerebbe l’emendamento preparato dal governo e presentato dal senatore Esposito, che in un colpo solo abbatte 35mila dei 47mila emendamenti che erano sulla strada della legge elettorale. Riforma che adesso potrà essere approvata dal senato prima dell’elezione del presidente della Repubblica, come palazzo Chigi comanda, ma appena un giorno o due prima (martedì o mercoledì), nel clima che sarà e con i due partiti, Pd e Forza Italia, alquanto sbrindellati. A suggello perfetto della giornata ecco la polemica di qualche fedelissimo del premier con il Tg3 per come ha dato la notizia: troppo spazio all’opposizione – opposizione interna al Pd, s’intende.

Una mattinata, tre voti decisivi. Bocciati i due emendamenti del bersaniano Gotor, non bastano i 26 voti della minoranza Pd né i 18 della dissidenza forzista per abbattere il numero dei «nominati» e fare delle preferenze il criterio principale di selezione dei nuovi deputati. Poi l’emendamento Esposito, il colpo di mano che riassume in nove punti le caratteristiche dell’Italicum, utile solo a far decadere tutti gli altri. Una «lista» senza contenuto precettivo che rimanda agli emendamenti di maggioranza (immaginarsi il pasticcio se questi non saranno approvati); la presidenza del senato la mette ai voti in apertura quando persino il glossario che serve a spiegare al pubblico come lavora il senato ricorda che si deve partire sempre dagli emendamenti più distanti dal testo base per consentire l’esame di tutte le proposte di modifiche. Stavolta l’obiettivo è opposto, il «super canguro» lo battezzano, fatto sta che in un minuto fa saltare nove volumi dei quindici che raccolgono gli emendamenti. Al macero.

Il voto è un referendum in aula sul patto del Nazareno, approvato con 175 voti a favore e 112 a sfavore, molti assenti tra i quali 12 nel Pd. Da sola la maggioranza ufficiale non reggerebbe: i 22 no del Pd, i due dei centristi e gli assenti la terrebbero sotto la soglia minima. Vorrebbe dire la crisi per il governo Renzi che ha messo la legge elettorale e le riforme nel programma della fiducia, ed ecco allora la salvaguardia vera, Berlusconi: la sua disciplina perde pezzi ma non abbastanza. I 46 sì di Forza Italia sono decisivi, e giustamente l’ex Cavaliere tornato protagonista esulta. Anche perché l’asse del Nazareno poco dopo raddoppia alla camera, stavolta non in maniera decisiva ma ancora evidente. Passa infatti un solo emendamento alla riforma costituzionale, ed è quello del Pd renziano che corregge l’unica modifica che era stata fatta in commissione, tornano così i cinque senatori di nomina quirinalizia. Questione importante perché così il testo della seconda lettura è conforme alla prima e nel prossimo passaggio al senato non se ne discuterà più. Alla camera c’è un solo deputato Pd che vota contro, Civati, due astenuti e tanti che preferiscono scivolare fuori dall’aula: 65 tra i quali Bersani e Cuperlo.

E così, mentre Renzi svillaneggia ancora un po’ la sua minoranza, la fronda che in Forza Italia segue Fitto (11 senatori) si diffonde in metafore funerarie – «suicidio collettivo, anticamera della morte, eutanasia politica» – e Berlusconi si fa i complimenti davanti ai fedelissimi – «siamo di nuovo determinanti, anche per il Colle» – il patto del Nazareno si sovrappone al partito della Nazione. «E adesso? – chiede il senatore della minoranza Pd Mucchetti – quale scambio si prepara sul decreto fiscale che può cancellare la pena accessoria di Berlusconi?». Ma prima di allora c’è l’elezione del successore di Napolitano, il secondo tempo del Nazareno. Niente di strano, allora, che Alfano incontri Berlusconi a ripetizione, è solo l’esigenza del piccolo Ncd di muoversi come mosca cocchiera. Renzi e Berlusconi non hanno bisogno di intermediari. I numeri ufficiali del senato non sono altro che il sigillo sul «patto» che precede e regge il governo, il tappeto rosso verso la prima riunione dei grandi elettori. Il presidente del Consiglio ne ha bisogno, perché quel dissenso che sulle riforme non fa male, sul Quirinale può ferire con il voto segreto. Ma ad ascoltare il premier a Davos in quel patto non c’è più solo convenienza, la consonanza è ormai matura. «Adesso – dice Renzi – si può investire in Italia senza paura dei giudici né del fisco». Senza paura.