Un sole di fine estate accarezza le strade di Centocelle e rende ancora più belli i resti archeologici, che a Roma non sono esclusiva del centro turistificato. Abbelliscono anche i quartieri e le periferie. A pochi metri dal tratto di Acquedotto Alessandrino di viale Palmiro Togliatti scorre via delle Mimose. Qui, tre settimane fa, Jamal ha inaugurato l’attività che sognava da tempo: barbiere e parrucchiere.

«COME LI FACCIAMO?», chiede con tono professionale appena mi siedo. Li voglio rasati di lato e corti sopra. Intanto gli domando dove ha iniziato a usare le forbici. «A Gaza. Siamo otto tra fratelli e sorelle. Ho 23 nipoti – racconta – Ho cominciato tagliando i capelli a loro. Ma poi sono dovuto fuggire. La prima volta nel 2007 in Egitto. Poi sono rientrato ma a dicembre 2008, mentre Israele lanciava l’operazione Piombo fuso, sono ripartito. La mia famiglia credeva che saremmo morti tutti e mi ha mandato via affinché qualcuno continuasse a portare il nostro cognome».

VA RICORDATO come durante quell’offensiva militare israeliana, che ufficialmente serviva a colpire Hamas, furono assassinati tra 1.166 e 1.417 palestinesi. Israele utilizzò bombe al fosforo bianco, vietate dalle leggi internazionali. L’operazione durò dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009. Per il manifesto la seguì Vittorio Arrigoni.

CONTINUO a interrogarlo per sapere dove è andato dopo. «In Egitto – ricorda – In teoria ci sarei dovuto rimanere, ma ho capito subito che la situazione era troppo difficile. Dopo due settimane mi sono messo in viaggio verso l’Europa, passando per la Libia. Lì ho abitato un mese in una villa. Qualche volta, mentre attendevo di ripartire, ho pensato di restare a vivere in quel paese. Con Gheddafi la situazione era migliore. Non era come adesso. La vita costava davvero poco: beni di prima necessità e benzina erano accessibili a tutti. Ma ho continuato».

GLI CHIEDO come. La risposta è scontata quanto drammatica. «Con un barcone – dice subito – Ho pagato i trafficanti. Mi hanno tolto tutti i soldi che avevo in tasca per pagare cibo, acqua e sigarette durante la traversata. Ma alla fine non c’era niente di quello che avevano promesso. Mi hanno detto che avremmo viaggiato in modo sicuro, in 20. Effettivamente siamo saliti in 20 su una barca, ma era solo per raggiungerne un’altra in mezzo al mare, molto più grande e con un sacco di gente sopra. Quando l’ho vista ho avuto paura, ma ormai non potevo tornare indietro. Se lo avessi saputo dall’inizio non mi sarei mai imbarcato. Avevo già rischiato la vita a Gaza, sotto le bombe e poi nella fuga. Non volevo rischiare ancora. Non voglio morire. Voglio vivere».

 

Foto di Costanza Fraia

DOPO QUALCHE secondo di silenzio, lo invito a continuare. «Sono arrivato a Lampedusa – va avanti – I funzionari dell’Unhcr non ci credevano. Dicevano che quasi nessuno arriva sull’isola da Gaza. Avevo buttato i documenti su consiglio dei trafficanti. Mi hanno chiesto di telefonare a casa, ma il telefono non squillava. Mi sono preoccupato. Sono riuscito a parlare con la mia famiglia solo sette giorni più tardi. Una bomba aveva lasciato il mio quartiere senza elettricità. Quando hanno risposto, i miei genitori mi hanno detto di non tornare. Lì ogni cosa era distrutta. C’erano aerei che bombardavano in continuazione. Le persone cercavano soltanto una bara in cui farsi seppellire. Erano tutti sicuri di morire».

DA LAMPEDUSA Jamal si dirige poi verso Roma, dove ottiene il permesso di soggiorno. Nei primi anni in Italia impara la lingua e svolge lavori di ogni tipo. «Tutti tranne la droga, che fa male alle persone – dice – Mi piace prendermi cura di chi ho davanti. Avrei voluto studiare fisioterapia. Avrei voluto finire la scuola superiore iniziata in Palestina, visto che mi mancava solo un anno, e andare all’università. Ma non mi hanno riconosciuto i titoli. Quindi ho dovuto ricominciare da capo e cambiare settore».

CONTINUA a raccontare che tra i 29 e i 32 anni frequenta un istituto commerciale la sera, l’accademia per parrucchiere il pomeriggio e lavora come mediatore culturale la mattina. «Oltre a pensare a me, dovevo mandare i soldi a casa per aiutare la mia famiglia – dice con la faccia seria – In quegli anni non avevo tempo neanche per dormire».

GLI CHIEDO se vorrebbe tornare a Gaza. Risponde con una domanda: «E a fare cosa? La situazione era già difficile prima, ma adesso è impossibile. Soprattutto da quando Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele ha creato un gran casino. Non ci vogliono lasciare nessuno spazio, nessuna possibilità di esistere».

IL DISCORSO vira infine sull’impegno politico qui in Italia. «Avevamo creato un’organizzazione chiamata Giovani palestinesi – spiega – Ma non era facile organizzare eventi di dibattito o scambi culturali. I ragazzi palestinesi non vogliono stare in Italia. Preferiscono andare nell’Europa del Nord. Qui non c’è lavoro. Non si trovano bene. È difficile dover andare all’estero senza sapere la lingua, senza sapere come funziona il nuovo paese. È un’altra società, un’altra vita. Io ho aperto un negozio e per imparare a scrivere una fattura mi sono dovuto rimettere a studiare. Ma ci sono mille cose che non ho ancora capito… tagliamo anche la barba?», chiede con lo stesso tono professionale di prima.

«Ok tagliamo anche quella», gli rispondo.