Pubblichiamo alcuni brani, riadattati dall’autore, tratti dall’introduzione al volume «Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico» (Castelvecchi editore, con una post-fazione di Nadia Urbinati).

In che termini era stato concepito e progettato il Pd? A quale modello di partito si è ispirata la sua costituzione? E oggi, a dieci anni dalla sua fondazione, come possiamo giudicare gli effetti che queste regole hanno prodotto sulla natura e il modo di operare del partito stesso? Il Partito Democratico, così com’è oggi, è frutto della mancata o distorta realizzazione del modello originario; è frutto delle sue promesse non mantenute? O, piuttosto, la crisi grave e indubitabile di questo partito è anche il frutto delle premesse stesse con cui era stato immaginato, e degli effetti perversi e/o imprevisti che ne sono derivati?

La tesi che, alla fine, ci proponiamo di dimostrare è molto netta: al di là di tutto ciò che può essere ricondotto alle varie opzioni strategiche adottate, alcune ragioni della crisi di questo partito vanno individuate nel suo stesso impianto fondativo, nell’idea stessa di partito che ne ha segnato la nascita e accompagnato lo sviluppo .

Nel complesso, emergono alcune essenziali caratteristiche che hanno segnato profondamente la natura del Partito Democratico e che possiamo riassumere in tre fondamentali “miti fondativi”, che si sono rivelati forieri di conseguenze negative, talora anche disastrose: a) il mito del “partito aperto”; b) il mito della “contendibilità”; c) il mito del partito “post-ideologico”.

a) Il Pd è definito nello statuto un partito “di iscritti e di elettori” e molte disposizioni statutarie sono caratterizzate dalla mancata distinzione e dalla sovrapposizione tra i diritti degli iscritti e quelli di un corpo indifferenziato di elettori. Com’è noto, la stessa procedura di elezione diretta del segretario (impropriamente definita come una primaria) prevede che ad essa possa partecipare chiunque, salvo una formale adesione ad una dichiarazione e il versamento di un modesto obolo. La conseguenza è stata quella di costruire un partito privo di confini organizzativi, privo cioè di uno stabile corpo associativo in grado di esercitare una piena sovranità democratica. A questa scelta è legato un altro dato fondamentale: il modello di democrazia interna che regge la vita del Pd non è ispirato ai principi della democrazia rappresentativa, ma ad una concezione che è giusto definire apertamente plebiscitaria: una visione della democrazia in cui la funzione preminente è quella dell’investitura di un leader, a cui “il popolo (nel nostro caso, “il popolo delle primarie”) conferisce un’autorizzazione al comando.

b) Sin dalle origini, si è pensato che un tratto innovativo del Pd dovesse essere quello di essere un partito contendibile, sia per le cariche interne che per quelle istituzionali. Nelle intenzioni di chi usava il termine positivamente, un partito contendibile voleva essere un partito che assicurasse una costante circolazione delle èlites. A dieci anni di distanza, possiamo ben dire che questa logica della contendibilità, applicata ad un partito, si è rivelata disastrosa: lungi dall’essere il veicolo di una concorrenza salutare, è stato il veicolo attraverso cui si è prodotto un controllo oligopolistico del potere (del “mercato”). La contesa c’è stata certamente, anzi si è rivelata spesso molto accesa; ma non solo e non tanto su base politica, bensì tra gruppi e cordate, potentati e filiere di potere. E’ la forma organizzativa che il Pd si è dato e che ha praticato, a costituire le precondizioni per questa profonda distorsione. Nel Pd mancano sedi, strumenti, incentivi e vincoli che favoriscano una gestione collegiale del partito; e mancano sedi e occasioni di un vero dibattito politico.

c) Già nella fase costituente possiamo cogliere una delle fondamentali faglie che hanno incrinato la vita del Pd, ossia l’idea di un partito post-ideologico. A quel tempo correva l’idea che la convergenza sui programmi fosse un collante sufficiente, che non occorressero visioni del mondo. Ma la storia di questi dieci anni mostra quanto questa idea non regga: un partito, degno di questo nome, non si può reggere senza una cornice di idee e principi condivisi. E’ vero che il Pd, almeno alle origini, si richiamava alle culture politiche (al plurale) che si ripromettevano di fondersi nel nuovo partito, con una sorta di fertilizzazione reciproca; ma la realtà è stata che queste culture politiche, nel migliore dei casi, sono vissute in una condizione di reciproca indifferenza. Negli anni a noi più vicini, poi, questo richiamo alle radici delle culture politiche fondatrici è apparso sempre più sbiadito, fino all’evanescenza.

Tuttavia, l’analisi del modello politico e organizzativo del Pd rimanda ad un interrogativo più generale: è possibile sfuggire al dilemma tra un puro ripiegamento nostalgico verso i modelli di partito che abbiamo conosciuto in passato, da un lato e, dall’altro, la mera rassegnazione ai (cattivi) modelli del presente? E’ possibile un’altra idea di partito? Offriremo alcuni spunti di discussione in questo senso, muovendo da una domanda radicale: in fondo, a cosa serve un partito (democratico e di sinistra)?

Infine, ci chiederemo: il Pd è un partito (ancora) riformabile? Non è nostro compito dare qui una risposta. Non sono mancate, in questi mesi, alcune voci che hanno invocato un vero congresso, ossia un percorso che non si riducesse alla competizione tra i candidati alla segreteria. Ma ciò avrebbe richiesto un azzeramento delle attuali regole: nessuno ha posto radicalmente questo problema. E dunque, quale che sia l’esito delle prossime primarie, una cosa è certa: aldilà della sorte che attende il Pd, il tema di un radicale ripensamento della forma organizzativa dei partiti e della loro vita democratica non sembra proprio destinato ad eclissarsi. Perché non basta avere buone idee (ammesso che siano tali), se non hai uno strumento, un partito, che connetta efficacemente analisi della realtà e azione politica.

Quali che siano gli scenari che si prospettano per il futuro, si devono lasciare decisamente alle spalle le false premesse e le false credenze, le mitologie fondative che, troppo a lungo, hanno accompagnato la vicenda della sinistra italiana, ancor prima che nascesse il Pd: l’idea che non servisse più un partito “pesante” (e “pensante”); o meglio, che la crisi e le difficoltà (indubbie) dei vecchi modelli di partito non meritassero più uno sforzo di ripensamento e progettazione, ma che fosse inevitabile spalancare la via a quelle che sembravano oramai tendenze oggettive e irreversibili della politica contemporanea: ossia, la nascita di partiti leaderistici, mediatici, leggeri, e finanche personali, attribuendo magari alla leadership solitaria un ruolo taumaturgico. I risultati di queste false premesse e di queste mitologie li abbiamo sotto gli occhi.