Da tre giorni giovani palestinesi armati di mitra pattugliano il campo profughi di Jenin. Non si sa nulla di Zakaria Zubeidi, ex comandante dei Martiri di Al Aqsa, e degli altri cinque palestinesi, militanti del Jihad islami, evasi domenica dal carcere di massima sicurezza israeliano di Gilboa. Loro, comunque, si preparano a proteggerli se dovessero scegliere di nascondersi a Jenin. «Abbiamo formato delle unità di monitoraggio, controlliamo ogni persona sospetta. Se Zakaria torna a casa sua nel campo, tutti lo proteggeranno e lo stesso vale per gli altri cinque eroi», spiega uno di questi giovani, con il volto coperto, in un video girato due giorni fa a Jenin.

Non è solo Jenin. La mobilitazione palestinese a sostegno dei sei fuggitivi cresce di ora in ora, di pari passo con la pressione che militari e polizia di Israele esercitano sulla Cisgiordania. Ed è aiutata dalla rabbia e dalla frustrazione per la grave situazione economica e la disoccupazione dilagante. Ma anche dalla diffidenza, a dir poco, per l’Autorità nazionale palestinese ritenuta da non pochi una sorta di «agenzia» dell’occupazione israeliana o, nella migliore della ipotesi, un’istituzione impotente, quindi non in grado di ottenere l’indipendenza e di assicurare una vita migliore ai palestinesi. Mercoledì sera in una dozzina di località, tra cui Huwara (Nablus), Betlemme e Gerusalemme Est, centinaia di palestinesi hanno bruciato pneumatici e affrontato i soldati con pietre e molotov, in un caso sono stati esplosi colpi d’arma da fuoco verso i militari.

La fuga dei sei detenuti è motivo di orgoglio per gran parte degli abitanti della Cisgiordania e la possibile, probabile dice qualcuno, uccisione degli evasi durante la caccia all’uomo lanciata da Israele, finirebbe per innescare una sollevazione palestinese come non accade da anni. «Se Israele li uccide, ci sarà un’Intifada sia contro Israele che contro l’Anp» avvertono alcuni. E lo stesso governatore dell’Anp a Jenin, Akram Rajoub, intervistato dall’emittente israeliana Kan, ha ammonito che «la situazione sarà grave anche se uno solo di loro sarà ucciso» e ricordato che i prigionieri politici occupano un posto speciale nella società palestinese.

Dall’altra parte ci sono le forze armate, la polizia e l’intelligence di Israele impegnati in rastrellamenti senza precedenti in Cisgiordania. L’obiettivo non è solo quello di catturare i fuggitivi. Si vuole lavare l’onta di un’evasione clamorosa che ha rivelato debolezze nel sistema carcerario, forse non solo a Gilboa, che nessuno sospettava. Non si esclude peraltro che qualche guardia carceraria abbia dato una mano ai sei palestinesi a dileguarsi. In ballo c’è l’immagine di Israele-tempio della sicurezza. La scelta, perciò, è caduta sul pugno duro, lo conferma il tono perentorio usato ieri dal ministro per la sicurezza Omer Barlev: «Metteremo le mani sui terroristi in fuga, correggeremo i fallimenti che potrebbero aver portato alla fuga e se registreremo negligenze professionali adotteremo le misure conseguenti». Quindi sono state annullate le visite dei familiari ai prigionieri palestinesi fino alla fine del mese mentre proseguono le proteste, scattate in varie carceri, contro il trasferimento di centinaia di detenuti dalle prigioni del nord a quelle nel sud di Israele. I controlli nelle celle si sono intensificati, le misure di sorveglianza sono molto più rigide. L’associazione dei detenuti palestinesi punta il dito contro l’amministrazione penitenziaria mentre l’esercito israeliano lancia blitz a sorpresa nei centri abitati palestinesi e ha arrestato i familiari di due degli evasi. Oggi Hamas e Jihad annunciano un giorno di rabbia nei Territori occupati.