Ora che il capro espiatorio è stato caricato dei peccati del mondo e mandato a vagare nel deserto, siamo tutti più contenti. I colpevoli sono i tifosi. Folk devils,  «cattivi a tutto tondo, senza alcuna possibile giustificazione o motivazione», li definiva il sociologo Valerio Marchi, il primo a studiare le curve non come territorio alieno ma come sintomatologie del tessuto sociale. Sono loro gli antisemiti, la feccia. La società è sana. E fa niente se il capo del calcio italiano, Carlo Tavecchio, ha una lunga storia di volgarità razziste su ebrei, omosessuali, africani che mangiano banane. E a settembre era invitato come ospite d’onore alla festa nazionale di Casa Pound.

Ha proposto un minuto di raccoglimento, si è ripulito. E non importa se il capitano della Nazionale, Gigi Buffon, vestiva la maglia numero 88, ci scriveva sopra il motto «Boia chi molla» e festeggiava con tricolori e celtiche. Ha autografato una copia del Diario di Anna Frank, è redento anche lui. E anche i giornalisti che ospitano politici razzisti, istigano le folle contro zingari e migranti, partecipano ai dibattiti a casa dei «fascisti del terzo millennio», legittimandoli, e poi vergano corsivi contro gli ultras. Liberi anche loro. Liberi tutti.

E così sessantanove anni dopo l’ultima partita di Arpad Weisz, ucciso con la famiglia ad Auschwitz, curiosamente un Bologna-Lazio, la squadra capitolina torna al Dall’Ara nel pieno tourbillon degli adesivi, delle sceneggiate e delle dediche appositamente sgrammaticate. E mentre un gruppo di tifosi laziali antirazzisti deposita corone di fiori che profumano di rispetto, e non finiscono nel Tevere come quelle lotitiane che puzzano di presa in giro, il «Boia chi molla» che piace tanto a Buffon risuona orrendo nella curva intitolata a Weisz, e occupata da altri tifosi biancocelesti.

Mentre in campo la Lazio sbaglia un rigore, colpisce tre legni ma segna anche due gol: cinque trasferte vinte su cinque e per la squadra rivelazione del campionato è meritatissimo il terzo posto in coabitazione con la Juve. I bianconeri, che hanno imparato a ballare sulle punte, dieci gol in tre giorni, aprono domani pomeriggio l’undicesima giornata di campionato a San Siro contro il Milan. Una volta si sarebbe scritto di sfida al vertice e contati gli spettatori nel mondo, oggi in una classifica divisa in rigide classi sociali al vertice è rimasta solo la Juve. I rossoneri, tornati a vincere dopo un mese, galleggiano invece a metà classifica. Le prime cinque continuano a vincere sempre contro le altre.

E con tutta probabilità sarà così anche questo fine settimana. Il Napoli ospita il Sassuolo, prima di capire la sua reale dimensione europea con il Manchester City in Champions League; la Roma attende il Bologna prima del Chelsea e l’Inter, che non ha coppe e può usare sempre i soliti giocatori senza temere di finire la benzina, va a Verona in un bel gemellaggio di curve di estrema destra. Mentre la Lazio difficilmente regalerà al Benevento il primo punto, permettendo ai campani di allungare il record assoluto negativo della Serie A, e a tutti di chiedersi che senso abbiano venti squadre. Così come bisognerebbe stare attenti a fare i saputi con Mihajlovic, che con fastidiosa arroganza finge di non sapere chi sia Anna Frank, perché se poi lui chiede al giornalista se sa chi sia Ivo Andric e quello risponde di no, beh, un bel tacer non fu mai scritto. Ma non prendiamocela con i giornalisti. Continuiamo insieme a loro a sparare a zero sui tifosi che, come scrisse quel genio di Altan, «questo deprecabile razzismo da stadio sta rovinando l’immagine di milioni di razzisti perbene».