Docente di Africa nel sistema internazionale all’Orientale di Napoli, Alessio Iocchi è autore per Carocci di Resistenti, ribelli e terroristi nel Sahel. Dall’occupazione coloniale alle crisi contemporanee (1897-2022). Gli abbiamo chiesto un commento su quanto sta accadendo in Niger.

È una crisi sempre ascrivibile alla dialettica coloniale, all’incontro-scontro tra Occidente, Africa e Islam?

Alessio Iocchi

La risposta è sì con alcune precisazioni. Assistiamo all’ennesimo episodio di uno scontro fra Occidente e Islam e nord e sud del mondo, che è stato cavalcato negli ultimi anni in maniera convulsa e confusionaria a seconda delle opportunità politiche. Così è stato per il regime del Mali, del Burkina, della Guinea e del Ciad, che è un caso a sé stante. Tutto questo in un periodo storico recentissimo, caratterizzato dalla crisi russo-ucraina e dall’emergere di visioni alternative portate avanti da Paesi che adesso vogliono far parte del Brics, come l’Arabia Saudita. Penso che i golpisti abbiano soltanto beneficiato degli accordi di partenariato con l’Occidente e dei vari corsi di addestramento negli Usa, in Francia e altrove.

Sono stati nutriti all’interno di un paradigma democratico liberale che ha fatto il loro interesse per lungo tempo …

Sì, dagli anni ’90 e soprattutto dagli anni 2000, c’è stata una svolta fortemente militaristica e poliziesca nei regimi di transazione democratica nel Sahel e in Niger in particolare. Dunque, siamo nella logica del quoque tu. L’Occidente, senza volerlo, ha portato a un aumento della letalità di questi eserciti e al rafforzamento di una sorta di sovranismo locale. Non dobbiamo dimenticare che il Niger rappresenta anche un crocevia di rotte migratorie. I militari nigerini si stanno rappresentando come baluardo contro le ingerenze esterne e traducono in maniera assolutamente pressappochista una forma di antimperialismo, che ricorda da vicino quello di Gheddafi o di Putin.

Nel suo libro lei parla del mito della «classe pericolosa» del Sahel, fatta di banditi, esaltati, trafficanti e ribelli. Insomma, hic sunt leones! Un mito che ha viaggiato attraverso la Guerra Fredda e la Guerra al Terrore. Ha cambiato idea su qualcosa?

Credo che il mito delle classi pericolose costruito nel corso della storia e attraverso diversi paradigmi geopolitici, nell’interazione tra Sahel e Occidente, sia fondamentalmente ancora valido. Le classi militari in ascesa si sono poste storicamente in contrapposizione alle figure che appartengono all’immaginario delle periferie indomite dei settentrioni saheliani. Il fatto che oggi, dopo i due colpi di Stato in Mali, i due in Burkina e quello in Guinea, assistiamo anche a questo golpe in Niger, dovrebbe farci riflettere su come la classe militare si percepisca e si rappresenti nel Paese, come indispensabile alla costruzione di un processo nazionale.

I golpe sono stati costruiti mediaticamente e retoricamente. Non è un caso che i golpisti del Cnsp del 26 luglio abbiano fornito una lista di necessità per le quali si è posto il loro intervento…

Necessità o, a mio avviso, pretesti: è evidente che scavando nel profondo, si trovino delle scuse di bassa risma e facilmente smontabili. Ci rendiamo conto che ci sono due ordini di ragioni, una più propriamente pragmatica, volta al mantenimento di una capacità redistributiva e di un ordine politico neopatrimoniale, relativo ad un’elite conservatrice legata all’esercito, e un’altra più ideologica: i militari come rivali della costruzione dell’ordine democratico liberale e costruttori di un ordine statale autoctono.

Che, insomma, risponda meglio a necessità domestiche.

Proprio così. Adesso è interessante osservare come i nuovi militari si relazioneranno con le periferie del Paese, che la riforma del decentramento ha in qualche modo favorito. Sappiamo che le due periferie eccezionali saranno quelle più propriamente sahariane, quindi la regione di Agadez e di Diffa, quelle più periferiche rispetto allo stato nazione nigerino. Sarà interessante notare come si relazioneranno con queste stesse poiché i meccanismi di compensazione tra spinte centrifughe e centripete nel Paese hanno portato a un equilibrio sì precario, ma che aveva una sua solidità grazie a una serie di negoziazioni e a una sorta di “patto di stabilità” .

Che ha consentito a Bazoum e a Issoufou di mantenere un saldo controllo attraverso il corpo intermedio del Pnds in queste aree …

Quel partito è stato il contenitore di varie istanze e di voci anche contrarie purché integrate col grande organo statale. Ad oggi stiamo osservando come il regime militare appena insediato non sappia ancora come agire rispetto ai rappresentanti del partito al potere. Ieri un collega nigerino mi diceva: «Vanno a cento, ma non sanno dove andare».

Il cordone ombelicale tra Francia e Sahel si sta spezzando inesorabilmente?

La Francia da più di un ventennio è alla ricerca di un disinvestimento in quell’area. Adesso, la riduzione è quasi un’estinzione. C’è la volontà di rafforzare militarmente, tecnologicamente e logisticamente gli esercito locali. La Francia si sta orientando nell’Indo-Pacifico e, dunque, è sempre meno interessante dal suo punto di vista rimanere a spendere risorse nel Sahel.

Come giudica la presenza della Wagner in questa area? In fondo, questo è il primo test dopo la marcia di Prigozhin…

C’è una dinamica di estrazione capitalistica grezza (noi wagneriani manteniamo la sicurezza e l’ordine, voi ci fate sfruttare le risorse del Paese) e c’è anche un discorso pseudo ideologico basato sulla necessità di diversificare i partner cercato dal Mali per uscire dall’isolamento globale in cui si era ritrovato. Il patto, però, è sempre quello e si giova del disinteresse dell’Occidente, che evidentemente non ha convenienze nel Sahel.