A girare per le strade della capitale britannica, a sentire le news e a leggere i giornali, si è legittimamente assaliti dal sospetto che ci siano delle celebrazioni in atto, ed è così. Si tratta del giubileo della regina Elisabetta “Parte” II, che – come Il padrino parte II – è uno di quei rari sequel addirittura migliore del primo film: settant’anni di regno celebrati in quattro giorni di festa con oltre 2400 eventi pubblici e 2700 feste di piazza, in un momento di semi-corale convivialità riservato ai disprezzatori del tristo istituto repubblicano.

L’apoteosi sarà domani, quando l’inevitabile Ed Sheeran e due giovani promesse del soul e del rock – Diana Ross e quel che resta dei… Queen – allieteranno la folla in barba all’osteoporosi.

IERI, COME DI PRAMMATICA, la famiglia reale è comparsa sul balcone (che brutta cosa, i balconi) di Buckingham Palace sfoggiando le divise d’ordinanza su cui da tempo immemorabile si sbrodolano i rotocalchi e dispiegando i polsi magistralmente ben oliati nel garbato saluto con cui benignamente accolgono l’adorazione delle masse, o commoner come gli aristocratici definiscono i “borghesi”.

L’ultra-nonagenaria sovrana poggia l’augusto derrière sul trono inglese – e di un para-impero denominato, senz’ombra alcuna di ironia, “Commonwealth” – da settant’anni esatti: un “servizio” come eroicamente lo definiscono qui, che sfida il decubito. E una sfida accolta per diritto divino: Dio in persona ha in effetti decretato che questo trono ella ereditasse dal padre; e da colei lo erediterà l’ormai anziano figlio.

Che fiorirà un’unica volta, come l’agave, già proteso verso il suo epilogo terreno (a meno che, presi dal panico per la sua impopolarità, non lo facciano frettolosamente da parte puntando tutto sul figlio di lui e la consorte Catherine, ragazza del ponte levatoio accanto e impareggiabile riciclatrice di abiti finto-economici).

I festeggiamenti,[object Object],a Londra per il Giubileo (foto Aaron Chown/Ap)

NATURALMENTE, oltre che delle forze armate, vale la pena ricordare che la regina è anche capo della Chiesa Anglicana, nazionalizzata e poi privatizzata qualche anno prima dal suo predecessore Enrico VIII per questioni sponsali ereditarie e fiscali, non necessariamente in quest’ordine. Alla faccia della politica identitaria, anche se – ricordiamolo – non ha poteri reali.

Elisabetta Windsor non è senza meriti. Silenzioso, discreto come si conviene a quella che è stata spesso definita una «monarchia delle banane» – niente carta costituzionale, una camera alta ereditaria in perenne, inconcludente riforma, un allegro procedere costituzionale a tentoni, forti dell’esperienza passata – il suo decubito è stato finora tra i principali antidoti alla disgregazione dell’Unione: non solo quella europea dopo il vulnus Brexit, ma del regno: Scozia, Irlanda del Nord, ecc.

E soprattutto quella del Commonwealth, nonostante quest’ultimo perda anche lui parecchi pezzi, Barbados solo in ordine di tempo. Ed è stato “onesto”, nel senso che perlomeno non si è messa illecitamente in tasca milioni di dollari come il suo omologo borbonico Juan Carlos. Ma quando sei una proprietaria terriera miliardaria forse non ti serve. Una regina taumaturga, l’avrebbe definita Marc Bloch.

IL SUO STOICISMO l’ha immolata per ovviare ai congiunti, che spaziano da mediocritas – ovviamente aurea – a criminalità (cfr. l’ex “duca di York” Andrea, deposto da ruolo e titoli pur di metterlo al riparo da un sacrosanto processo penale). Senza di lei, la complessa transizione da medioevo a società dello spettacolo su cui sta in bilico la monarchia britannica non sarebbe stata certo possibile, tantomeno il mantenere l’osceno lusso in cui sguazza da secoli, giustificato con il servizio infaticabile alla nazione.

In settant’anni neanche un passo falso, a parte forse quella foto pubblicata anni orsono dal Sun (di Murdoch!) in cui, bimbetta, fa il saluto romano su istigazione dello zio nazi Edoardo l’Abdicatore, ma quello era senz’altro colpa dello zio nazi.

Una statua della regina Elisabetta nel Kent

Eppure, tale irreprensibilità è biologicamente vincolata: ed è facile immaginare un accelerarsi del processo di decomposizione del Commonwealth dopo la sua dipartita: la recente, imbarazzante visita dei “duchi di Cambridge” (William e la succitata consorte) in Giamaica, e in vari altri paesi caraibici dove il fatto che “Kate” ricicli coscienziosamente gli abiti non frega a nessuno, è stata un monito di quanto riserva il futuro.

NATURALMENTE, a remare contro la storia ci pensa il fido Boris Johnson, che ha annunciato, nel dileggio generale, la reintroduzione delle misure imperiali(stiche): un tripudio di once, pinte, pollici, galloni per far brancolare nel buio tutti i nati dopo il 1985. E finora, perlomeno in Inghilterra, vera patria di Brexit, la monarchia resta solida.

Solo il 27% della popolazione, secondo un sondaggio recente si definisce repubblicana. Un po’ meglio fra i giovani tra i 18 e i 24 anni di età, che nascono incendiari: il 40% vuole un capo di stato eletto, contro il 37%. Ma i giovani, secondo un odioso dato empirico, invecchiano pompieri.