I centri antiviolenza lombardi in lotta per avere l’anonimato
CIELO NERO Parla Manuela Ulivi, presidente del Cadmi di Milano e avvocata: «Vogliono i codici fiscali delle donne. Ma verrebbe meno la segretezza. In Italia vengono preservati i dati di chi si rivolge ai Centri. Ci siamo rifiutate di fornirli alla Regione e siamo state escluse dalla distribuzione dei finanziamenti statali»
CIELO NERO Parla Manuela Ulivi, presidente del Cadmi di Milano e avvocata: «Vogliono i codici fiscali delle donne. Ma verrebbe meno la segretezza. In Italia vengono preservati i dati di chi si rivolge ai Centri. Ci siamo rifiutate di fornirli alla Regione e siamo state escluse dalla distribuzione dei finanziamenti statali»
La Casa di accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano (Cadmi), primo centro antiviolenza a essere stato fondato in Italia nel 1986, a oggi ha ospitato più di 700 donne e ne ha seguite oltre 30mila nei loro percorsi di uscita dalla violenza maschile, dapprima affiliate all’Udi ma soprattutto grazie alla perseveranza di una pioniera come Marisa Guarneri e a una pratica delle relazioni che la distingue per buone prassi da anni. Dal 2008 fa parte della rete Di.Re. che affonda le proprie radici nella storia e nella pratica femminista.
È dal 2014 che in Lombardia i centri antiviolenza, oltre alla insufficienza e al ritardo strutturale dei fondi statali stanziati, devono fare i conti con una questione complessa. La Regione Lombardia infatti prevede che le organizzazioni antiviolenza compilino una scheda in cui tra gli altri dati vengono chiesti i codici fiscali delle donne che si rivolgono ai Centri. La giustificazione da parte della Regione, che senza dati non dà i fondi che spetterebbero di diritto, è che il codice fiscale serva a livello statistico e venga anonimizzato senza intrecci. «I problemi invece ci sono – dice Manuela Ulivi, attuale presidente di Cadmi e avvocata -, perché i dati rimangono nei computer regionali e sono condivisi con la società “Lombardia Informatica”. Il nodo è stato sollevato anche dal “Grevio” (esperti/e di violenza sulle donne del Consiglio d’Europa, ndr) che si occupa di monitorare la rispondenza alla convenzione di Istanbul ma non abbiamo avuto riscontri».
Qual è la situazione del Cadmi?
Attualmente le case rifugio sono 7 e possono ospitare fino a 20 donne, ora ne abbiamo 12 in ospitalità. Dal 1 gennaio al 31 ottobre 2020 abbiamo avuto 750 contatti e abbiamo seguito circa 500 donne nelle loro richieste di incontro e di sostegno.
In altre regioni funziona tutto in anonimato. Perché allora Regione Lombardia vuole i dati?
Abbiamo sempre collaborato con la Regione, una delle ultime a dotarsi di una legge specifica sul tema della violenza contro le donne, L. 11/2012, per ampliare la nostra presenza, anche per attività di formazione oltre che per altre attività di sostegni psicologici, legali, di reinserimento lavorativo e/o di recupero delle proprie autonomie, compresa quella di trovare una nuova abitazione e un nuovo luogo di vita. Regione Lombardia ha costruito un sistema di raccolta dati O.R.A. (osservatorio regionale antiviolenza) che ad un certo punto, senza alcuna possibilità di discussione tanto meno di condivisione, ha preteso di ottenere dai nostri centri l’inserimento del codice fiscale delle donne. Ci siamo ribellate, innanzitutto perché questo avrebbe violato la nostra metodologia dell’accoglienza, che prevede il rispetto della segretezza e dell’anonimato della donna. Il risultato è stato quello di essere state escluse dalla distribuzione dei finanziamenti, peraltro provenienti e definiti da una legge statale (L. 119/2013). Si consideri che Regione Lombardia riceve questi finanziamenti anche in ragione della nostra stessa esistenza sul territorio.
Una questione politica?
L’idea sottesa è prestazionale, lo vediamo anche nell’ambito sanitario e i centri antiviolenza rientrano in questo ragionamento che prevede la verifica di non dover pagare «prestazioni doppie», quando neppure veniamo finanziate a prestazione, e che però diviene un meccanismo di controllo a tutti gli effetti a cui non possono sottostare donne nella già complessa condizione di una fuoriuscita da un percorso di violenza. Cadmi, con molti altri centri antiviolenza lombardi, sta subendo, in altre forme, una violenza dall’istituzione perché si rifiuta di sottostare a imposizioni che snaturano la propria metodologia di lavoro: il rispetto della donna, delle sue volontà, ma soprattutto dell’anonimato e della sua segretezza.
Come avete vissuto gli ultimi mesi?
In lockdown abbiamo lavorato il doppio, senza presidi sanitari, che abbiamo dovuto reperire in autonomia o con dispendio enorme di risorse, oppure addirittura facendoli arrivare attraverso amicizie e conoscenze dalla Cina. Le nostre operatrici hanno dovuto cercare attraverso la rete cittadina delle corsie preferenziali nel caso di necessità di verifica di positività per le donne ospitate, perché ancora oggi in regione è molto difficile avere accesso ai tamponi gratuitamente.
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