Secondo un recente sondaggio di Termometro Politico, «gli elettori del M5S si sentono più a sinistra di quelli Pd a seguito] dell’abbandono da parte di chi era meno schierato e più centrista». La strategia di Giuseppe Conte in questa campagna elettorale appare chiara: posizionarsi come forza «molto più progressista del Pd», così che «un elettore di sinistra è quasi costretto a votare M5S».

È una strategia che mira ad attrarre qualche elettore dem – deluso da Letta e conscio della sconfitta imminente – e che soprattutto mira all’elettorato «a sinistra del Pd», che però, numeri alla mano, da un quindicennio vale 6-7 punti percentuali: sufficienti per assicurare rappresentanza autonoma a quel mondo, ma insufficienti a garantire al M5S il ritorno ai fasti di cinque anni fa.
Alla luce del rifiuto di Conte di perseguire una strategia «alla Mélenchon» pare quindi che il M5S intenda reinventarsi quale attore egemone di questa area politica, ai danni del «sinistra del centrosinistra» (Verdi e Sinistra italiana) e, soprattutto, dell’Unione Popolare guidata da De Magistris.

Se diamo per buono quel 7 percento di elettori di sinistra radicale, i sondaggi oggi ci dicono che Verdi e Si stanno poco sopra il tre percento, mentre Unione Popolare è fra l’uno e il due. Rimane circa un tre percento che opterebbe, in massima parte, per il M5S.

Il 9-10 percento di elettori che un mese fa appariva ancora orientato a votare M5S può essere considerato lo zoccolo duro dell’elettorato pentastellato. Uno zoccolo ridotto, se consideriamo il 32 percento del 2018 e il fatto che il M5S ha governato per l’intera legislatura uscente, potendo quindi vantare, più di qualsiasi altro partito, risultati concreti in termini di policies e un’indubbia vetrina istituzionale.

Si dice che il M5S viene tradizionalmente sottostimato dai sondaggi. In realtà, a venire sottostimati sono i partiti più votati dai ceti popolari in elezioni ad alta affluenza. Alle politiche del 2013 e del 2018, il M5S venne sottostimato di 5 punti. Alle europee del 2019 (affluenza media), il M5S venne però nettamente sovrastimato dai sondaggi, così come Raggi in occasione delle amministrative romane 2021 (affluenza bassa). Oggi non è detto che il M5S verrebbe troppo premiato dalla maggiore affluenza tipica delle politiche. Per due ragioni.

La prima è la probabile disaffezione dei ceti popolari. Secondo un sondaggio Ipsos il M5S di Conte, fra i ceti meno abbienti, risulta la quarta scelta, dopo l’astensione, Fratelli d’Italia e Lega. Inoltre, se l’argomento del «voto utile» è poco credibile per spingere a votare il centrosinistra, lo è ancor meno al fine di votare M5S, che cinque anni fa fece man bassa dei seggi uninominali al Sud. La seconda ragione è che il bacino di sinistra radicale cui punta Conte è tradizionalmente il più politicizzato – quello, insomma, che alle urne ci andrà.

In sintesi, mentre diversi elettori di sinistra abbandonano i partiti d’area a favore del M5S, magari perché «forza politica capace di parlare al popolo», molto di quel popolo si è dimostrato, risultati elettorali di questo lustro alla mano, deluso da quel partito. Gli elettori di sinistra possono ben argomentare che, per poter ripartire, sia giunta l’ora di fare tabula rasa di ciò che resta in quell’area, presidiata da partiti che hanno lasciato macerie. Al tempo stesso, ci si deve chiedere se il M5S e Conte possano essere considerati soggetti politici affidabili per costruire una rappresentanza politica dei ceti popolari.

Il M5S è un partito inesistente sui territori. Verticale al limite del personalista, e pertanto con una struttura gerarchica basata sulla cooptazione, dalla cultura politica dei propri militanti al tempo stesso conformista e settaria, e dalla scarsissima affidabilità in termini di tenuta del gruppo parlamentare.

Si può vedere Conte come colui che sta dando una direzione politica chiara e progressista al M5S. Il problema è che questa funzione ‘pedagogica’ avrebbe dovuto essere svolta quando il partito era ai massimi storici, non ai minimi come ora. Ricordiamo il primo governo Conte, quello del reddito di cittadinanza, di quota 100, della lotta serrata ai migranti e dell’esibita ma ineffettiva pretesa di recupero di sovranità nei confronti dell’Unione europea. Quel governo si risolse nel più grande trasferimento di voti a favore delle destre degli ultimi trent’anni.

Il leader pentastellato sostiene di guidare un partito che ha rispettato «l’80 percento del programma 2018» – il che, oltre a non essere vero, aiuta a ricordare che il M5S ha governato quasi cinque anni sostenuto dal più numeroso gruppo parlamentare. Il M5S e il suo leader hanno sostenuto il governo Draghi e votato provvedimenti «guerrafondai» e «lontani dall’agenda eco-sociale» per diciotto mesi.

Basta davvero il recente registro progressista adottato da Conte, a fronte dei limiti ideologici, organizzativi e di affidabilità del M5S, per seppellire ogni alternativa? Paiono dubbi leciti da tenere perlomeno in considerazione.