Da un paio di settimane, nel catalogo Netflix è incluso Hustle di Jeremiah Zagar. Nel film si narra di un uomo che cerca il cosiddetto unicorno e, contemporaneamente, dell’unicorno che non sa di esserlo. Un tema classico dell’estetica quando si interroga sul genio e sul suo riconoscimento, peraltro presente anche in quel cinema di genere che esplora le origini di un supereroe o di un individuo destinato a cambiare le sorti dell’universo perché in possesso di una dote speciale.

IN «HUSTLE», il mondo è quello più piccolo del basket Nba e di ciò che vi orbita intorno, soprattutto dei giovani talenti che cercano di salire al piano di sopra del professionismo attraverso il Draft, la selezione che ogni anno le diverse franchigie operano scegliendo giocatori dalle università statunitensi e dai campionati di tutto il mondo. I protagonisti di questa storia sono Stanley Sugerman, un talent scout con un passato di giocatore inespresso a causa di un incidente e che ora lavora per i Philadelphia 76ers con l’ambizione di diventarne il vice allenatore, e Bo Cruz, cestista che per vari motivi è stato costretto a rinunciare al sogno di passare al professionismo, limitandosi a frequentare i vivaci playground spagnoli, per divertirsi e, nel caso, per raccogliere qualche spicciolo da aggiungere a quelli presi lavorando in fabbrica. Un giorno il reclutatore si imbatte per caso nell’asso dello streetball ed è convinto di aver scovato l’unicorno. Il normale che riconosce lo speciale.
Si tratta di portarlo negli Stati Uniti, di convincerlo che ha delle qualità uniche e di persuadere gli altri a puntare su uno che è sconosciuto pure a se stesso. Operazione complicata, tanto più che il talento dell’unicorno va e viene, si manifesta e poi si rintana, perché periodicamente sopravanzano l’incapacità di dominare le emozioni e la mancanza di autostima. Bo, come Rocky corre per le strade e le scalinate di Philadelphia.

 

Tuttavia, a differenza del celebre pugile che prima viene chiamato e poi inizia coltivare un’ambizione, il giovane spagnolo non sa affatto se gli altri decideranno di ritenerlo un eletto. Hustle rinnova una volta di più il connubio tra sport e narrazione audiovisiva, celebrata anche attraverso la massiccia partecipazione di giocatori e addetti ai lavori che interpretano se stessi.

IN UN CERTO SENSO, uno degli elementi più intriganti è proprio l’innesto di Stanley (Adam Sandler) e di Bo (Juancho Hernangomez, un vero giocatore Nba) in un ambiente reale che sa/vuole mettersi in scena, probabilmente perché già predisposto come uno spettacolo, persino nelle fasi apparentemente meno interessanti come un Draft o la Combine, una specie di fiera dove i giocatori si mettono in mostra. Lo abbiamo appena visto con la serie Winning Time e, solo per citare un titolo, con He Got Game di Spike Lee. Il limite per un prodotto del genere è che finisca per scontentare chi vorrebbe più rigore nel trattare l’argomento e chi, ignorandone regole e dinamiche, preferirebbe una maggiore evasione dalla stringente realtà.