Caro direttore, vorrei mettere a fuoco un’importante questione di metodo che, recentemente, avevo cercato di sintetizzare in un post che, anche per i termini inappropriati utilizzati (di cui mi scuso), ha suscitato molto scalpore, creando disagio a me, alla Corte dei conti e a tante altre persone.

Aggiungo, dando ragione a Michele Serra, che la grande bacheca dei social non è adatta per esprimere pensieri complessi. Ritorno quindi su mezzi in cui è possibile una maggiore ponderazione.

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Si è chiusa da poco la sessione di bilancio per il 2024 e, ancora una volta, il parlamento non ha avuto un grande ruolo nella partita.

La partenza, al senato, è avvenuta con dieci giorni di ritardo, il 30 ottobre (anziché il 20 come previsto), e il testo per la camera è stato licenziato il 22 dicembre, dopo una discussione strozzata, come avviene da molti anni, dal maxi-emendamento, che ha risucchiato l’intera prima parte del bilancio, e la posizione della fiducia, che ha impedito una discussione di merito in Assemblea. La camera ha approvato a scatola chiusa, senza apportare modifiche, in soli sette giorni, il 29 dicembre.

La metamorfosi del diritto provvisorio del bilancio si è arricchita quest’anno di una nuova variante, la blindatura, che, baldanzosamente, il governo aveva annunciato al momento della presentazione.

La realtà è stata diversa e la lunga discussione in commissione bilancio del senato (25 sedute, fino al 18 dicembre), è stata nei fatti una lunga melina in attesa che trovassero composizione, fuori dal parlamento, i contrasti allocativi della maggioranza. Cosa che si è concretizzata con tre grappoli di emendamenti, del governo e dei relatori.

L’esercizio della funzione allocativa, cioè da chi si reperiscono le entrate e per quali programmi di spesa si utilizzano, vede il parlamento sempre più ai margini, attraverso un diritto provvisorio del bilancio che tradisce spirito e lettera delle disposizioni costituzionali poste a presidio di questa funzione.

Questo svilimento dell’assemblea legislativa si è protratto anche dopo la riforma del 2016, che ha prodotto, in attuazione della revisione costituzionale di qualche anno prima (2012) il superamento della legge di stabilità e la riunificazione della manovra in un unico strumento normativo (la legge di bilancio).

Della questione è stata interessata anche la Corte costituzionale che, nel 2019 e nel 2020, pur dichiarando inammissibili i conflitti di attribuzione sollevati rispettivamente, dalla sinistra e dalla destra, ha indirizzato un chiaro monito al decisore, un pressante invito a ricostruire un meccanismo decisionale rispettoso della Costituzione, paventando però, in forma abbastanza chiara, la possibilità di produrre «esiti differenti» nel caso di dovesse presentare analoga questione.

La questione, come si vede, è risalente e bipartisan. Se si vuole cogliere una differenza rispetto al passato, si può sottolineare che oggi l’attuale maggioranza, ampia, legittimata dal voto e (astrattamente) omogenea, che si propone un governo di legislatura, avrebbe il dovere istituzionale, conferitole proprio dalla sua robustezza, di ripristinare un metodo costituzionalmente corretto di discussione e approvazione del bilancio dello stato.

Ma non mi sembra ci si stia muovendo in questa direzione.

Si perpetua la prassi del piccolo tesoretto messo a disposizione del parlamento che, nonostante la meritoria destinazione da parte della sinistra della sua quota al contrasto della violenza di genere, resta un metodo abominevole.

Il parlamento si deve occupare dell’intero bilancio, dalle politiche pubbliche (missioni) ai programmi (unità di voto) con le loro numerose articolazioni (azioni).

E per fare ciò è necessario in primo luogo impostare la manovra con largo anticipo, a partire dal Def, come avviene negli altri grandi paesi europei.

Questo perché i bilanci pubblici, in particolare quelli del sistema multilivello, dallo Stato al comune, sono un bene pubblico che si pone al cuore dell’incrocio tra produzione della ricchezza e funzionamento delle istituzioni politiche; e se queste istituzioni sono connotate dall’assetto democratico delle loro procedure di partecipazione alla formazione della decisione giuridica, assetto coessenziale alle formazioni economiche aperte e innovative, la verità e affidabilità dei bilanci pubblici resta alla base della fiducia che muove e sostiene la creazione di ricchezza, la partecipazione democratica e la ricerca dell’innovazione e del benessere collettivo.

La sinistra dovrebbe fare anche di questo tema un elemento di «rotazione» politica secondo l’espressione usata su queste pagine da Brancaccio (con una dose di autocritica) ed elaborare proposte, da inserire nell’affresco più ampio delineato da Azzariti, per irrobustire i presidi normativi, attivare forme di democrazia deliberativa, riportare il parlamento al centro della decisione allocativa.

Perché affrontare i temi del bilancio pubblico, anche quelli di natura più tecnica, necessari per gestire un manufatto ad alta complessità, non si esaurisce mai in un approccio di natura ragionieristica o contabile, ma investe il rapporto tra governanti e governati, tra cittadini e decisori. È, in altre parole, una questione democratica.