Come si sa, della ciurma in servizio sulla baleniera Pequod scampa un solo marinaio, quello che nella primissima pagina di Moby Dick ci invita, in qualità di voce narrante, a chiamarlo Ismaele: grazie a lui verremo a conoscere la tragica storia del capitano ossessionato da un capodoglio al punto di votarsi al diavolo, o chi per lui, pur di potersi vendicare. Dettaglio di non secondaria importanza, Ismaele si salva aggrappandosi a una bara che per sua fortuna resta a galla, come se nella sua salvezza si sublimasse comunque una forma di morte e poi di resurrezione, cosa che non sorprende in un testo dai molteplici livelli allegorici, dove lo stesso Achab incita il comandante Starbuck a scendere al little lower layer, ovvero al  piccolo strato inferiore di senso.

Al contrario, nel breve romanzo Gentiluomo in mare, di Herbert Clyde Lewis (traduzione di Marco Rossari, Adelphi, pp. 152, € 13,00), uscito nel 1937 e rapidamente dimenticato nonostante qualche recensione a suo tempo positiva, l’equipaggio e i passeggeri della motonave Arabella, in navigazione da Honolulu a Panama, arriveranno tutti a destinazione tranne uno: il signor Henry Preston Standish, caduto accidentalmente tra i flutti del Pacifico per via di una scivolosa chiazza di olio o altro grasso. L’incidente passa inosservato perché Standish non è propriamente un tipo del quale si senta subito la mancanza. Nella sua postfazione Marco Rossari lo vede come un piccolo Bartleby, ma Standish è piuttosto un cittadino esemplare, un marito fedele, un padre responsabile, un indefesso lavoratore che non direbbe mai: «preferisco di no». Sebbene un tantino noioso, tutto sommato è un uomo dabbene,  (forse anche troppo) che per sfuggire a un momento di depressione, si è concesso la lunga vacanza alla fine della quale si ritroverà a bordo dell’Arabella. Essendo un individuo terribilmente normale, la sua assenza non viene notata, per cui Standish non sfugge alla sua sorte: nessun soccorso tempestivo, nessuna bara provvidenziale alla quale aggrapparsi. Di questa novelette nitida ed essenziale ci si ricordò solo nel 2010, sessant’anni dopo la morte dell’autore, quando venne ripubblicata in Argentina. Da allora la figura di Lewis è riemersa dalle tenebre della storia, completa della sua discendenza ebraica nascosta dal padre dietro un cognome classicamente anglosassone (la famiglia in origine si chiamava Luria). Risalito dalle profondità oceaniche a reclamare la nostra attenzione, dopo decenni di tenebre abissali, il personaggio di Standish torna incredibilmente presente, con tutta la sua vita ordinaria e la sua morte tragicomica.

Il parallelo con Melville aiuta a prendere le misure del testo di Lewis: in Moby Dick il mare agisce da grande elemento isolante che racchiude l’affollato microcosmo della baleniera, facendone un palcoscenico sul quale si recita la tragedia del folle Achab, il più shakespeariano degli eroi americani; in Gentiluomo in mare, la placida superficie del Pacifico stacca dal resto dell’umanità un uomo solo, e funziona da evidenziatore narrativo della sua vicenda esistenziale. Seguendo i pensieri sempre più angosciati di Standish, Lewis ci fa ripercorrere la sua vita, le sue ambizioni (non molte), le sue passioni (o la loro assenza), la sua storia di autentico Everyman. A quel che manca di drammatico nella sua esistenza così regolare, così priva di svolte e colpi di scena, supplisce il sordo montare della inesorabile potenza dell’oceano, leopardianamente indifferente alla minuscola sventura di un piccolo uomo, finito a mollo nei suoi flutti. E alla fine di questa storia non c’è rinascita, non c’è salvezza per l’uomo qualunque e troppo perbene; solo una morte accidentale, spietata, insensata, a coronare la sua vita forse più subita che vissuta.

Rossari suggerisce echi della tolstojana Morte di Ivan Il’ič; a volerli cogliere, si direbbe che Lewis abbia in qualche modo aggiornato quel celebre racconto, dandogli un tono tipicamente americano, e assai prossimo alla nostra sensibilità. Non sarà un caso se Gentiluomo in mare ha dovuto attendere tanto per riemergere dagli abissi dell’oblio.