Dopo Northrop Frye, del quale assimilò, fino ad odiarla, la monumentale Anatomia della critica, Harold Bloom – scomparso nella notte di lunedì scorso a ottantanove anni, nella amata New Haven, sede dell’Università di Yale, sua alma mater – è stato fra gli ultimissimi grandi maestri della critica letteraria del secondo Novecento. Era nato a New York, da una madre originaria di un paese limitrofo a Brest Litovsk, e da un padre nato a Odessa, che lo educò all’ortodossia ebraica. In famiglia parlavano yiddish, Harold Bloom, il futuro custode del Canone Occidentale, imparò l’inglese non prima dei sei anni.

ENCICLOPEDICO quanto Frye, ha lasciato dietro di sé l’eredità di un lavoro davvero straordinario, consistente in monografie su – fra gli altri – R. W. Emerson, Wallace Stevens, W. B. Yeats, Shelley, Shakespeare; riflessioni teoriche, in particolare, sul canone (il contestatissimo Canone Occidentale, appunto); saggi sul tema dell’«agone», la competizione fra poeti anziani e nuovi arrivati sulla scena letteraria (L’ansia dell’influenza, Una mappa della dislettura); dissertazioni sui diversi modi di leggere (Come si legge un libro, e perché).

Ha lasciato inoltre commentari sulla Bibbia (Rovinare le sacre verità, La religione americana, Il libro di J) e su tradizioni mistico-religiose (Gnosticismo, Kabbalah, cultura yiddish). La sue curatele sono celebri, ma fra i suoi scritti ci sono anche testi di finzione, poesie, racconti e altre fantasie. L’eredità che lascia è complessa, resa tale anche dalla singolare versatilità dell’uomo, la cui discendenza dall’Ebraismo segnò molti dei saggi più noti: i suoi libri sono indispensabili a chi intenda dedicarsi alla letteratura, e non possono mancare nella biblioteca di ogni aspirante critico, perché sono formativi come pochi altri di una fisionomia intellettuale in fieri.
Lo slancio maggiore ai fini della maturazione del suo pensiero e della sua produzione a venire Harold Bloom lo sviluppò a partire dagli anni Settanta, quando, svenduta con L’ansia dell’influenza – forse il suo libro più famoso – la propria affiliazione agli archetipi di Frye, il cui influsso iniziava a tornargli ormai scomodo, preferì unirsi a un gruppo di colleghi che intendevano rinnovare l’avvicinamento al testo letterario ispirandosi a Jacques Derrida e alle molte facce del decostruzionismo. Si originò, così, quella che sarebbe stata chiamata «Scuola decostruzionista di Yale», destinata a fare molti proseliti fino ad almeno gli anni Novanta.

ANCORA NEGLI ANNI Settanta, quando la critica imboccò la deriva di letture informate da un inequivocabile taglio ideologico – fosse esso femminista, marxista, neo-storicista, comunque militante in favore di qualche minoranza sessuale o etnica o di qualsivoglia genere – quando cioè l’analisi dei testi si piegò a assecondare il verso della contingenza in cui operava, Bloom protestò che nulla aveva a che fare con simili, pur rispettabilissime questioni, la dimensione estetica dell’opera d’arte, l’unica sulla quale basare un giudizio di valore. Fu il casus belli che iscrisse il critico statunitense a quella che egli stesso avrebbe chiamato la «Scuola del risentimento», condivisa da tutti coloro che contestavano il clima ormai dilagante nelle accademie americane e non solo, complice la scuola dell’élite decostruzionista.

Una impasse che Northrop Frye (critico peraltro tanto diverso da Bloom) non aveva conosciuto, avendo egli rinunciato al giudizio di valore, tramite il perno invariabile degli archetipi.

OGGI LA POSIZIONE di Harold Bloom non sarebbe sostenibile, soprattutto nella sua versione più radicale, quella che si espresse, per esempio, nelle seguente affermazione: «l’idea che si fa del bene agli umiliati e offesi facendo leggere a qualcun altro delle loro origini invece che dargli da leggere Shakespeare, è una delle più strane illusioni mai prodotte nelle nostre aule universitarie».
Negli ultimi tempi il vecchio Bloom stava tutt’altro che bene, e tuttavia riuscì a portare a compimento, nel corso degli ultimi due anni, cinque monografie dedicate ognuna a personaggi shakespeariani: Falstaff, Cleopatra, Lear, Iago, Macbeth. Corre voce che esca, la prossima primavera, la sua autobiografia: sarà un pezzo di storia della letteratura, l’involontario monumento alla lettura analitica di un critico, che nonostante le molte polemiche innescate dalle sue prese di posizione è considerato, a ragione, uno studioso intoccabile.

Incrollabili sono di certo i suoi saggi, che è impossibile immaginare vacillino, un giorno, sotto il peso del tempo.