Visitando il primo piano di Max Gate, la casa molto poco pretenziosa che Thomas Hardy disegnò per sé appena fuori Dorchester, non è difficile scambiare per un angusto ripostiglio lo studio dove lo scrittore lavorò più o meno una decina d’anni. Il successo gli consentì nel 1895 di costruirne uno più ampio, con alte librerie e un grande camino e una singolare finestra priva di riquadri centrali perché il suo sguardo potesse perdersi lungo l’amata valle del Frome. È tuttavia l’altro studio, adesso ancora più opprimente poiché una delle due finestre fu murata, ad accendere la fantasia del visitatore. Per quanto soffocante e scomodo, lì dentro infatti Hardy creò Tess. Nacque in quella stanza così piccola una delle più grandi protagoniste della narrativa di tutti i tempi. Una protagonista che «non ha rivali», per dirla con Carlo Cassola, se è «la più attraente figura femminile uscita dalle pagine di un romanzo».

Per chi abbia conosciuto l’incantevole lattaia di Hardy in versioni di qualche anno fa – la prima nella nostra lingua risale al 1904 –, per chi la ravvisi nella pur fatata Nastassja Kinski del film di Roman Polanski, per chiunque non l’abbia mai incontrata, l’occasione per avvicinare Tess dei d’Urberville è offerta dalla nuova traduzione firmata per BUR Rizzoli («Grandi classici», pp. 466, € 11,00) da Monica Pareschi, cui si devono anche i preziosi apparati, e corredata da un originale, partecipe saggio introduttivo di Emanuele Trevi. Suddiviso non in capitoli ma in «fasi», opzione con cui l’autore indica come il tempo della storia coincida con la trasformazione imposta dagli eventi alla sua protagonista, il romanzo di Tess si direbbe identificarsi con la candida adolescente abusata anche per la sua difficile storia redazionale, se il testo nasce come la trama da una ferita. Iniziato nel 1889 per essere pubblicato a puntate, rifiutato due volte poiché giudicato immorale, il manoscritto fu concluso nel 1890, e solo allora mutilato per il settimanale «Graphic» dall’autore tramite una serie di accorgimenti grafici che gli permetteranno di ricostruire la lezione originaria e stamparla in volume già nel 1891. Licenziando le ultime bozze aggiungerà d’impulso il molto discusso e ormai celebre sottotitolo: «una donna pura».

Intendeva difendere l’innocenza della sua protagonista o accusare l’ipocrisia della società vittoriana, la cui pervasiva intolleranza mortificava anche i personaggi letterari? Si direbbe più esattamente che Hardy abbia a cuore tanto la verità della natura umana, quanto il diritto dello scrittore a raccontarla. «Niente in letteratura dovrebbe mostrare idee permissive su quella purezza di vita da cui dipende il benessere della società; ma la posizione dell’uomo e della donna nella natura, e la posizione delle credenze nella mente dell’uomo e della donna – cose che tutti pensano però nessuno dice – dovrebbero essere accettate e trattate con franchezza» scriveva concludendo Candour in English Fiction, un saggio apparso proprio nel 1890. Né queste parole né il sottotitolo del libro ripareranno Tess da uno scandalo che dividendo il pubblico esplose incontenibile come il suo successo. Ma chi è questa giovane «donna pura», puri essendo infatti i sentimenti e i pensieri cui si accordano le sue azioni, inflessibilmente sospinta incontro al proprio destino da colui che Virginia Woolf definì il «più grande scrittore tragico tra i narratori inglesi»? In tutto il romanzo che porta il suo nome Tess resta una ragazza che vorrebbe essere vista, guardata almeno una volta non per la bellezza splendente di quel corpo da cui si sentirà poi distaccata come da un cadavere affidato alla corrente, ma per l’anima che brucia dentro e la illumina: vista dunque per quella che è.

Nessuno in realtà guarda Tess; non una delle persone che affermano di amarla, se ne rammarica più volte, si accorge di chi sia veramente e di quale trasformazione operi dentro di sé durante il suo solitario, doloroso cammino. I genitori disfunzionali, il finto cugino stupratore, il marito narcisista e rifiutante: ognuno di loro vede in lei solo una figura modellata secondo i propri desideri o i propri sogni, stabilisce con lei un rapporto di possesso, su di lei esercita il potere della manipolazione. Questo oscuramente sente Tess e di sé vorrebbe dire. Ma interessa a qualcuno, sembra chiedere Hardy, ascoltare una ragazza che racconta la propria storia, che la racconta così come davvero è andata? Forse è questo il significato più profondo e insieme più rivoluzionario del romanzo. Ha senso che le ultime parole di Tess, dopo il gesto irrevocabile con cui per la prima volta decide senza intromissioni della sua vita e di sé, siano semplicemente: «Sono pronta». Si è appena svegliata da un sonno dormito nell’unico luogo che percepisce come la sua vera casa, protettivo benché esposto al cielo stellato e aperto ai venti, il tempio arcano di Stonehenge.

Dal «prato del villaggio alla fertile vallata, dall’altopiano pietroso a Stonehenge», ha scritto Margaret Drabble, «in Tess il paesaggio e la stagione si conformano alle sorti della protagonista». In questo romanzo che dal realismo deraglia grandiosamente verso il modernismo, sterzando tra racconto di formazione e idillio, romance e horror, crime e quest, la natura occupa uno spazio decisivo: non sfondo impassibile della vicenda ma duttile materia con cui sono plasmati i personaggi, crogiolo da cui prende forma il loro carattere e anche il loro destino. L’architetto Hardy lavora sul paesaggio trasformando il suo angolo di mondo, l’immaginario Wessex, in un luogo universale di straordinaria varietà e ampiezza; lo disegna per edificare una struttura narrativa basata su simmetrie rigorose come un edificio. Le molte camminate descritte nella trama funzionano come corridoi di accesso alle stanze di una casa, passaggi attraverso i quali insieme a Tess procede il tempo; rispecchiano, nel simbolico avvicendarsi di temperature e climi, i percorsi che gli eventi scavano dentro di lei mutandola per sempre.

Perlacea e sfolgorante, filigranata ma ferrea, sensibile, quasi tattile, la traduzione di Monica Pareschi consente oggi al lettore italiano di distinguere più chiaramente ogni sfumatura del delicato universo psichico della protagonista, ogni vibrazione della sua cangiante esistenza emotiva. Nella scena inaugurale del ballo di calendimaggio, Tess incontra l’uomo che amerà per tutto il romanzo, ma lui la nota troppo tardi e da lontano: la banale delusione per quello sguardo mancato si ripercuoterà con allusiva potenza sul suo dramma interiore. La versione Einaudi (1950) legge che la protagonista «non riuscì tanto facilmente ad allontanare l’incidente dal suo pensiero»; quella Mondadori (’79) che «non riuscì a togliersi dalla testa il ricordo dell’accaduto»; la prima BUR (’80) che «non riuscì ad allontanare facilmente l’episodio della propria immaginazione». Si direbbero, al netto di ogni imprecisione, divergenze insignificanti: tuttavia solo l’opzione adottata da Pareschi, «non riuscì a togliersi così facilmente l’episodio dalla testa», evita il cliché di una Tess sognatrice o esaltata per restituirla alla sua verità di adolescente incuriosita da un forestiero e insicura della propria bellezza.

Risalta nella nuova traduzione la straordinaria polifonia del romanzo (il cui testo Hardy continuerà a ritoccare fino al 1919), la sua partitura musicale giocata sui continui soprassalti di tonalità e sui bruschi passaggi di atmosfera ritmica, il contrappunto degli inserti comici; si accendono di colore le voci dei vari personaggi, i dialogati in dialetto, l’evolversi del linguaggio di Tess che accompagna la maturazione della sua personalità. Anche lo scarto stilistico tra narrazione e riflessione, considerato il difetto maggiore di Hardy, brilla qui nella sua accezione più potente e armoniosa: difformità, discontinuità, dissonanze individuano quella ricerca di verità chiamata a rompere ogni convenzione. Monica Pareschi soffia via la polvere dall’opera più amata di questo autore poco letto in Italia facendola risplendere: le riesce il misterioso incantesimo di lasciarla respirare dentro il suo tempo e insieme di avvicinarla al nostro cuore.