Quando, un paio d’anni fa è stato accolto tra «gli immortali» dell’Académie française, Dany Laferrière ha riservato un sorriso di circostanza a chi gli faceva notare che si trattava del secondo nero a entrare nella celebre istituzione culturale, dopo Léopold Sédar Senghor, autore di prosa e poesia oltre che simbolo dell’indipendenza del Senegal. Poi, rapida, è arrivata la sua versione della cosa, accompagnata questa volta da un volto raggiante. «Pur essendo nato ad Haiti, il mio battesimo come scrittore è avvenuto a Montréal, in Canada, dove ho vissuto la maggior parte della mia vita. Vorrei essere un ponte tra l’America del Nord e l’Africa, ma credo che questo riconoscimento non abbia nulla a che fare con il colore della pelle, con una qualche idea di ’razza’. Si può dire che sono il primo membro dell’Académie che non è francese, né naturalizzato francese, che non è nato né vive in Francia. Ecco, questa mi sembra una definizione dal valore universale».

Dany Laferrière è fatto così. Nella vita come nelle sue opere, quello che è considerato come il maggiore autore haitiano vivente – e tra gli scrittori più influenti nel panorama letterario non solo del Québec ma del Nordamerica – predilige uno stile diretto, una chiarezza che è frutto di scelte precise, di una determinazione che dopo gli anni dell’esilio da Haiti (per le sue posizioni contro la dittatura dei Duvalier e per essere figlio di un noto oppositore politico) e un decennio trascorso come operaio nelle fabbriche di Montréal, ne ha fatto un assoluto protagonista della narrativa contemporanea.

Quella chiarezza che nella ventina di opere che ha pubblicato a partire dalla metà degli anni Ottanta prende forma in uno stile che mescola volutamente piccoli flash di vita quotidiana – come la preparazione del cibo, elemento centrale nella vita sociale di Haiti -, una solida impostazione narrativa che fa pensare alle opere di Hemingway (spesso citato dallo stesso Laferrière, insieme a Bukowski e a Henry Miller, come protagonista assoluto della sua formazione), a scorci di poesia e a un’immaginazione che conserva le tracce di una creatività dal sapore orgogliosamente infantile. L’autore non ha mai smesso di alimentarla, grazie alla sua indomita curiosità e al taccuino che porta sempre con sé: vi annota ogni cosa lo colpisca, ma soprattutto il lato spesso buffo o bizzarro che assumono le vicende umane, anche le più dolorose. Un universo simbolico seducente che emerge anche nei due volumi di Laferrière pubblicati in contemporanea in questi giorni, grazie a una significativa editoriale, da 66thand2nd, Tutto si muove intorno a me (pp. 134, euro 16) e Nottetempo, Paese senza cappello (pp. 268, euro 16,50) che l’autore ha presentato alla kermesse romana di Letterature e proporrà il 23 giugno al Festival Salerno Letteratura.

Gran parte della sua opera si presenta come una riflessione intorno alla storia di Haiti, alle vicende conosciute dal suo paese d’origine, alla cultura di quella terra e ai suoi abitanti. È chiaro cosa Haiti possa rappresentare per la sua biografia, ma sul piano più squisitamente «narrativo» quale rapporto la lega ancora oggi all’isola?
Oggi come ieri, Haiti è il luogo che mi ha fatto quello che sono, che mi ha per molti versi strutturato. La mia sensibilità si è costruita durante l’infanzia che ho passato nel paesino di Petit-Goâve, accanto a mia nonna: è lì che ho provato fin da piccolo le emozioni più vere. Ed è a quei momenti e a quei luoghi che torno ancora oggi con la mente e il cuore quando mi sembra che ciò che sto scrivendo rischi di diventare freddo o astratto. Spesso nei miei libri torno a quella stagione della mia vita passata ad Haiti come se si trattasse un po’ del suolo sul quale non ho mai smesso di camminare e sul quale ho edificato tutto ciò che sono.

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In seguito, la mia adolescenza a Port-au-Prince è stata più movimentata, c’è stata la scoperta della politica e la consapevolezza di cosa rappresentasse la dittatura, prima di Papa Doc e quindi di Baby Doc (una dinastia di despoti al potere tra il 1957 e il 1986), insieme alla scoperta dell’amore, del desiderio. Anche in quel contesto ho imparato molto: credo di aver incontrato allora le persone più coraggiose che abbia mai visto in vita mia. Ricordo che c’erano queste ragazze che abitavano in una casa dall’altra parte della strada e che un giorno, nel pieno della repressione scatenata dalla dittatura, hanno deciso che erano stufe di nascondersi, di stare chiuse in casa per evitare il peggio, così sono uscite e si sono messe a ballare in mezzo alla via. Io stavo nascosto perché ero ricercato e mia madre insisteva perché non uscissi. Ma guardare quelle ragazze che avranno avuto più o meno la mia età, che ballavano e ridevano come se non potesse accadergli niente, è qualcosa che non ho più dimenticato. Mi hanno dimostrato che, per quanto drammatica sia la situazione in cui ci si trova, bisogna vivere, continuare a vivere a ogni costo. È di gran lunga la cosa più sovversiva che si possa fare, molto più di qualunque discorso politico: opporsi a una dittatura significa cercare di essere felici. Dobbiamo cacciare i dittatori e chi ci opprime dalla nostra vita intima.

È con questo spirito che ha raccontato in «Tutto si muove intorno a me» il terremoto che ha colpito Haiti nel 2010. Nel libro descrive le devastazioni e le tragedie causate dal sisma, ma soprattutto la forza interiore della popolazione, rifiutando il cliché dell’«isola maledetta» segnata dal dolore. Una scelta paradossale, non crede?
Solo in apparenza. Sono profondamente convinto che da questo punto di vista esistano due Haiti, quella che si trova concretamente su quell’isola e l’idea di Haiti che ci si può fare in base al racconto e all’immagine che ne viene data a livello internazionale e che risulta spesso inquietante. A chi elenchi soltanto i «numeri» della difficile situazione che vi si vive – da quelli relativi alla bassa aspettativa di vita ai bassissimi indici del Pil -, sembra sfuggire l’insieme della realtà dell’isola, la sua complessità. I problemi gravissimi ci sono, solo che non ci si può limitare a fotografare la realtà di quella terra in quel modo. La grande ricchezza di Haiti è rappresentata dalla capacità delle persone di misurarsi con i drammi della vita. La loro forza è nella vita collettiva. Gli haitiani riescono a mettersi insieme in ogni momento, specie in quelli più difficili. Ed è questa la prima cosa che ho notato mentre ero lì, in quel momento drammatico e ho cominciato a prendere qualche appunto sul mio taccuino per scacciare la paura. La tv parlava di saccheggi e di violenze tra i sopravvissuti al terremoto, ma io ho visto anche tanta gente che si prendeva cura dei propri vicini, come degli sconosciuti che erano rimasti senza più niente e stavano seduti in silenzio sul bordo di una strada.

Questa capacità di far fronte alle situazioni peggiori si è plasmata anche attraverso le varie forme di resistenza opposte allo schiavismo e al dominio coloniale? In «Paese senza cappello» lei conduce una sorta di inchiesta semiseria sul vudù e sulla cultura degli schiavi africani che fa pensare a qualcosa del genere…
I colonizzatori europei, quindi i dittatori locali che si sono succeduti per decenni hanno sempre cercato di organizzare e definire le regole in quello che nel libro definisco come «lo spazio del giorno», ma la notte, quella nessuno è mai riuscito a dominarla. È rimasta come un livello «altro» dell’esistenza dell’isola. Ed è di notte che gli schiavi potevano ritrovare la libertà che di giorno gli era negata. Avevano una loro religione che veniva dall’Africa, il vudù, molto articolata e ricca di figure divine, basata su un vasto Olimpo, simile a quello dei greci, che la notte prendeva corpo. I loro rituali erano molto complicati, comprendevano canti, danze e soprattutto una fortissima e radicata dimensione metafisica. Non solo, avevano una lingua, il creolo, che cresceva con loro e avrebbero finito per fare la storia in nome di una speranza di liberazione: ciò che dalle rivolte della fine del Settecento porterà all’indipendenza dalla Francia già nel 1804 e all’abolizione della schiavitù molto prima che negli Stati Uniti.
Perciò l’identità profonda di Haiti si basa su questa cultura che si è sviluppata da principio clandestinamente durante l’occupazione coloniale, malgrado e contro questo dominio, nello spazio che sfuggiva al controllo del potere. Tutto ciò ci dice non solo della forza morale e del carattere degli haitiani, ma anche del ruolo che la cultura ha assunto fin dal principio nella storia dell’isola. Spesso lo sviluppo di una cultura articolata fa seguito al raggiungimento di una qualche forma di benessere in una società, da noi è successo il contrario: quegli schiavi hanno dapprima nutrito l’anima, dando vita a un percorso culturale di cui sono ben visibili le tracce ancora oggi, e poi, forti della consapevolezza, si sono ribellati per conquistare condizioni di vita migliori e riempire anche il loro stomaco.

Dopo essere stato costretto a lasciare Haiti quando aveva solo 23 anni, lei ha vissuto a Montréal, quindi a Miami, infine nuovamente in Canada. Ciò che le era stato imposto è divenuto oggi una libera scelta, eppure la sua opera è spesso presentata come «letteratura dell’esilio». Come stanno le cose?
Forse i miei sono «romanzi dell’esilio», anche se una parte di me – sogni, ricordi ed emozioni – non ha mai lasciato davvero quell’isola. Ho parlato complessivamente della mia opera come di una «autobiografia americana» nel senso che descrive una traiettoria esistenziale che si è compiuta. tra Haiti, gli Stati Uniti e il Canada, tutta nelle Americhe. Ho cominciato a scrivere di Haiti quando la mia vita scorreva già da tempo a Montréal e ho raccontato cose che mi riguardavano individualmente rinnovando però per questa via anche il mio rapporto con la società haitiana – senza contare che ci sono circa un milione e mezzo di haitiani che vivono tra gli Usa e il Canada, difficile perciò sentirsi isolati in questa situazione. Inoltre, al termine «esilio» che incarna l’idea che a vincere siano stati i dittatori, preferisco quello di «viaggio» che mostra come in realtà chi mi voleva punire mi abbia concesso una nuova chance: mi ha regalato il mondo intero. I dittatori non possono lasciare le loro terre per paura di perdere il potere, al contrario di quanti si oppongono a loro. Proprio ora sto scrivendo un libro dedicato a questo tema che uscirà l’anno prossimo e in cui spiego che il vero problema è quello di liberarci di tutte le frontiere che ci imprigionano. Le barriere sociali, razziali e di classe costituiscono già un peso sufficiente per aggiungervi altri ostacoli che limitino a un determinato orizzonte o territorio la legittimità del nostro sguardo.