Gulia e la morte che abita in mezzo a noi
Viviamo la morte di Giulia Cecchettin con la dolorosa consapevolezza che tante giovani ragazze piene di vita hanno vissuto, vivono e vivranno la sua condizione di oppressione, il suo desiderio di aiutare il loro oppressore, sperando di redimerlo e di riscattare il sentimento che gli avevano rivolto. Rischiando di incontrare non solo uno “stalker”, o un uomo violento, ma una mina vagante foriera di morte.
Spiegare i femminicidi con la gelosia, con la volontà di possesso o con l’odio ci porta a collocarli nel campo dell’ordinaria violenza umana grave. Attribuirli genericamente al patriarcato, ci può deresponsabilizzare insieme all’uccisore. Esiste una nostra corresponsabilità individuale che ha a che fare non solo con l’asservimento alla mentalità patriarcale, ma anche con la difficoltà di riconoscere l’insinuarsi della morte nei nostri spazi vitali e la presenza tra di noi di automi che si fanno suo veicolo.
La violenza che subisce la donna non è solo esterna (la millenaria prevaricazione maschile) ma anche interna (la censura a cui sottomette preventivamente la sua libertà erotica). Eppure, la società patriarcale non è mai riuscita a assoggettarla, a alienare la sua anima ribelle all’ingiustizia. La donna, pur storicamente oppressa, ha resistito, con la forza interiore che le è propria, all’emarginazione del suo desiderio. La sua capacità di resistere internamente alla sottomissione dell’eros alla logica del più forte ha mantenuto vivo e desiderante il rapporto di tutti con le cose del mondo.
L’emancipazione della donna da un sistema di potere che da una parte ha represso la profondità e intensità del suo rapporto erotico con la vita e dall’altra ha fondato silenziosamente su di esso la propria umanizzazione e civilizzazione, si è arenata vistosamente. La molteplicità dei diritti formali concessi alle donne in modo disorganico e in una piccola parte del mondo, ha velato la restrizione impressionante del tempo e degli spazi conviviali a loro disposizione per dispiegare e vivere il loro potenziale erotico, mentale e affettivo.
C’è un attacco generalizzato alla sessualità femminile (la matrice di ogni esperienza umana autentica) da parte di una società sempre più de-sessuata, immersa in un agire performante ossessivo, producente oggetti e relazioni di consumo, che uccide affetti e pensieri e ci svuota delle nostre emozioni.
Più si insedia tra noi la morte del desiderio, più nelle strade del mondo vagano maschi (i più esposti all’erosione dei sentimenti che colpisce l’intera umanità) che alla rabbia e alle azioni impulsive si aggrappano per liberarsi dell’insopportabile vuoto psichico che li abita. Sono persone spente dentro che quando non hanno più appigli, uccidono nella donna ciò che più rivela il loro spegnimento: la capacità di lei di amare senza calcoli, la sua speranza (fiducia nell’umanità), che anche da un’erbaccia può nascere un fiore.
È necessaria un’alleanza degli “amanti” (i soggetti della sessualità, dell’amicizia, della convivialità) che ci impegni personalmente.
Gli uomini avranno un futuro come soggetti desideranti coltivando con cura il rispetto della libertà e dell’idioma esistenziale del loro oggetto erotico. Tutti noi dipendiamo dalla ribellione delle donne alla restrizione del loro enorme potenziale creativo e espressivo radicato nella sensualità della loro materia psicocorporea. Ribellione che rivendica la libertà di disporre del loro corpo, soffocata in Iran nel sangue.
Proteggiamo in tutti i modi l’amore delle donne per la vita. Isoliamo gli automi assassini (né “mostri”, né “bravi ragazzi”), superando la cecità che ci impedisce di vederli. Sono importanti la prevenzione e la cura affettiva (gli assassini senza odio e senza emozioni non si curano con i tranquillanti).
Altrettanto importante è la sanzione che non concede false attenuanti, i “turbolenti” stati d’animo.
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