Le urla da Ramallah giungono fino a Gaza. «È un crimine spregevole contro il nostro popolo…la Palestina è una singola unità, anche economicamente», gridano i funzionari del ministero dell’economia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Hamas non replica e, in ogni caso, non ha alcuna intenzione di revocare il divieto di fatto per le aziende lattiero-casearie della Cisgiordania di vendere i loro prodotti nella Striscia di Gaza. Il passo compiuto dal movimento islamista, che nel 2007 ha strappato con la forza il controllo di Gaza al presidente dell’Anp Abu Mazen, è senza precedenti. Ma non è sorprendente se si considerano i colpi bassi che Anp, o meglio il partito Fatah, e Hamas si scambiano regolarmente da anni mentre dichiarano di volersi riappacificare nel nome degli «interessi supremi del popolo palestinese». «Come si può prendere una decisione del genere, la Cisgiordania non è un paese straniero, è Palestina», protesta Azzam al Ahmad, uno dei dirigenti di Fatah più importanti. Non può passare inosservato che mentre latte e yogurt della Cisgiordania non entrano a Gaza, il divieto non è stato imposto a prodotti simili provenienti da Israele che pure Hamas indica come il «nemico» da combattere sempre e comunque.

Motivo della decisione sarebbe quello di proteggere le produzioni dei latticini a Gaza e di aiutare l’economia locale colpita dalle conseguenze del blocco israeliano e della pandemia. Almeno questo avrebbe in mente, secondo fonti locali, il direttore generale del commercio Rami Abu Rish. I due giganti cisgiordani della produzione di yogurt, formaggi e latte fresco, Al Juneidi e Al-Jebrini, sono concorrenti troppo forti per le piccole aziende del settore a Gaza, perciò vano fermati. Hamas nega un divieto ufficiale e parla in modo vago di una richiesta di limitare le importazioni dalla Cisgiordania presentata da «settori dell’economia» che il suo esecutivo starebbe esaminando. Tuttavia gli stessi produttori di latticini di Gaza confermano, con un certo compiacimento, l’esistenza del divieto. «L’aiuto all’economia locale è solo un pretesto» dice al manifesto un giornalista di Gaza che ha chiesto l’anonimato. «Hamas – spiega – vuole riempire le sue casse vuote. Possiede o controlla aziende e fabbriche di Gaza anche nel settore dei latticini, uno dei pochi redditizi perché produce generi di largo consumo. Eliminare la concorrenza significa incrementare non poco le sue entrate».

Tra i palestinesi regna lo sconcerto. Le critiche comunque non si focalizzano solo sul movimento islamico. Nel mirino c’è anche la rapidità con cui, dopo la vittoria di Joe Biden, l’Anp ha riallacciato i rapporti con Israele, con l’intento di segnalare la sua disponibilità a riprendere i negoziati con lo Stato ebraico quando il presidente eletto prenderà il posto di Donald Trump alla Casa Bianca. Tanti  puntano il dito contro il ministro per gli affari civili, Hussein Sheikh. Nei giorni scorsi Sheikh aveva annunciato che Israele verserà all’Anp tutti e 890 milioni di dollari palestinesi generati dalla raccolta di dazi doganali su merci da e per i Territori occupati e da tasse sul lavoro dei manovali della Cisgiordania. In realtà i milioni di dollari che trasferirà Israele sono 750: il governo Netanyahu ha trattenuto la quota destinata dall’Anp alle famiglie dei martiri e dei prigionieri politici, ex e attuali. Un sussidio che Israele considera un «incentivo al terrorismo». A causa di ciò e del piano di annessione della Cisgiordania (poi sospeso), la scorsa primavera Abu Mazen aveva interrotto i rapporti con Israele. Ora la marcia indietro.