Boris Johnson «è di buon umore», rassicura la Bbc. Dopo il ricovero in ospedale di domenica sera – notizia che ha fatto tremare i vetri a lunga distanza – e la somministrazione di ossigeno, sebbene senza l’uso di un ventilatore, il premier rimane sotto stretta osservazione, mentre fioccano i cinguettii di augurio dai capi di stato stranieri come dal mondo politico e dalla famiglia Windsor.

È evidente che la trasparenza nel riferire le reali condizioni di Johnson sinora osservata dalle fonti ufficiali sia quanto meno opaca. Ieri pomeriggio ancora non si sapeva nulla di effettivo circa il decorso effettivo del ricovero all’ospedale St. Thomas di Londra, tranne un ansioso insistere sul non aver fatto ricorso all’intubazione e l’assenza di polmonite.

Nel frattempo anche Michael Gove, importante ministro senza portafoglio e una delle poche figure sostanziali del governo, si è auto-isolato dopo che un membro della sua famiglia ha mostrato «leggeri sintomi».

Alle cinque pomeridiane di ieri, ora dell’appuntamento con la consueta conferenza stampa quotidiana del vice Dominic Raab, sprovveduto forse più per l’accentramento spasmodico di poteri e responsabilità perseguito da Johnson – che si è circondato di yes men privi di effettivo potere decisionale – che per gli innegabili limiti personali, le vittime della giornata si contavano a 786, facendo registrare un lugubre incremento sulle 439 di lunedì.

Sono finora «in tutto» 6.159, ha comunicato il ministero della Sanità riferendosi alle morti accertate, ma è evidente che il bilancio reale sia ancora superiore. E si tratta di una buona notizia: l’aumento quotidiano, almeno secondo le proiezioni governative, si mantiene al di sotto del temuto raddoppio ogni due-tre giorni.

Raab si è sperticato nel sottolineare la saldezza dello «spirito di squadra» di questo acefalo governo, per dissipare le voci affastellatesi negli ultimi giorni che lo davano in balia di un tutti contro tutti accusatorio circa le responsabilità per i tamponi insufficienti e la risposta confusa e contraddittoria – prima lassista poi rigida – all’emergenza. Ma è chiaro che le richieste su chi tenga la barra in questo momento di tempesta si stiano facendo assordanti.

La riproduzione casuale con cui il Covid-19 sceglie le canzoni – e le vite – da interrompere è un tristo memento della sua letalità. Anche facendo appello a tutta l’umanità di cui – ci si augura senza sforzo – si è capaci nel considerare la sventura di Johnson, è impossibile non pensare al fatto che applaudire e dare dell’«eroe» a chi è mandato al macello virale in corsia suona alla peggio come una presa in giro. Soprattutto dopo anni di tagli a sanità e settore pubblico perpetrati all’unisono con la cosiddetta opposizione.

Quest’oleosa retorica, complice l’industria culturale, si diffonde anche in Italia, nonostante la cultura nazionale – con buona pace delle miserabili e catastrofiche velleità bellicistiche dei post/trans/neo/veterofascisti di ogni risma – rimanga più ateniese che spartana. Bisogna resisterle.