L’autorizzazione del presidente Obama è arrivata: ieri sono cominciati i primi voli di ricognizione statunitensi sopra il territorio siriano. Per ora non pioveranno bombe, né un’escalation dell’intervento militare Usa. Per quello si dovrà attendere che Washington trovi un buon compromesso: sì a raid contro le postazioni Isis ma senza aiutare indirettamente il regime del nemico Assad. Ieri Obama ha ripetuto le minacce all’Isis: «L’America non dimentica, giustizia sarà fatta anche se richiederà tempo».

Secondo fonti dell’intelligence, gli aerei – alcuni senza pilota, altri jet U2 – sorveglieranno le zone in mano ai jihadisti per raccogliere nformazioni necessarie a un eventuale intervento, prospettato nei giorni scorsi dal capo di Stato maggiore Dempsey secondo il quale sarebbe inutile colpire il gruppo di al-Baghdadi in Iraq se non lo si sradica anche dalla vicina Siria. Quelli partiti ieri non sono i primi voli di ricognizione Usa nel paese: il mese scorso jet militari avevano volato sul cielo siriano per mettere in piedi la missione – poi fallita – di salvataggio degli ostaggi statunitensi in mano ai qaedisti. Proprio l’uccisione di uno dei giornalisti rapiti, James Foley, ha fatto premere l’acceleratore per un potenziale intervento. Ieri Washington ha fatto sapere che il terzo ostaggio statunitense in mano ai jihadisti è una cooperante di 26 anni per la quale l’Isis avrebbe chiesto 6,6 milioni di riscatto.

Lunedì ad aprire ai raid Usa era stato lo stesso regime di Assad, che si era detto pronto a collaborare con i governi occidentali. Ora Obama è chiamato ad orchestrare un’azione che eviti di regalare un inatteso sostegno a Damasco. Per questo, dicono fonti del Pentagono, si penserebbe a bombardamenti mirati lungo il poroso confine tra Siria e Iraq, oggi controllato dall’Isis, e a omicidi di leader islamisti a partire dalla roccaforte di Raqqa. Nessun intervento in profondità: «Non è il caso del ’nemico del mio nemico è mio amico’ – ha precisato il vice consigliere alla sicurezza nazionale, Benjamin J. Rhodes – Collaborare con Assad porterebbe all’alienazione della popolazione sunnita, necessaria a sradicare l’Isil». Gli fa eco la Casa Bianca che fa sapere di non avere piani di coordinamento dell’intervento anti-Isis con il governo siriano che considera «minaccia terroristica». Tale possibilità era stata già presa in considerazione dal ministro degli Esteri di Damasco, Muallem, che lunedì aveva avvertito che raid non coordinati con il regime sarebbero stati considerati aggressioni esterne.

Preoccupati dai raid Usa restano le opposizioni moderate, che temono di veder evaporare la possibilità di utilizzare il confine nord con la Turchia per l’ingresso di armamenti e miliziani. La Casa Bianca rassicura: ai bombardamenti contro l’Isis si potrebbero accompagnare nuovi aiuti ai gruppi moderati di opposizione, «un programma di addestramento e equipaggiamento per l’Esercito Libero Siriano», fa sapere l’ufficio stampa del Pentagono.

Un colpo al cerchio e uno alla botte, che a oggi ha solo infiammato i settarismi regionali. Ieri, dall’altro lato della frontiera, l’ennesimo attentato terroristico ha bagnato di sangue le strade di Baghdad: un’autobomba è saltata in aria in mattinata in un trafficato incrocio della capitale, a Baghdad Jadida, uccidendo 15 persone e ferendone almeno 37. Il giorno precedente, nella stessa zona, un attentatore suicida si era fatto esplodere dentro una moschea sciita, uccidendo 11 civili.

I timori di una spartizione dell’Iraq – di cui avanzata dell’Isis e attacchi giornalieri sono indice – preoccupa il vicino Iran che, pur continuando a negare di aver inviato uomini a Baghdad, si muove dietro le quinte. Ieri il presidente kurdo Massud Barzani, in una conferenza stampa con il ministro degli Esteri iraniano Zarif, ha rivelato che Teheran «è stato il primo paese a sostenere i peshmerga, fornendo loro armi e equipaggiamento». Dagli Usa, invece, sono arrivati i raid con i droni, partiti – spiega il Washington Post – da tre basi militari nel Golfo Persico, probabilmente in Qatar, Emirati Arabi e Kuwait. Washington preferisce nascondere i dettagli sull’esatta posizione delle basi per non imbarazzare gli alleati: non è una novità che le petromonarchie ospitino l’esercito Usa, ma oggi appaiono riluttanti nell’ammettere un ruolo nello sganciamento di bombe sull’Iraq, dopo il sostegno fornito negli anni passati ai gruppi jihadisti che stanno mettendo a ferro e fuoco il paese.