Le fabbriche di armamenti lavoreranno su tre turni: ordine del presidente Pëtr Poroshenko. Non sembra proprio la strada maestra per preparare la pace nel Donbass, anche se questo non è ciò in cui sperano le persone comuni.

Tramite un conoscente comune, ci siamo intrattenuti via Skype con due operai ucraini, entrambi provenienti da una cittadina vicina a Donetsk, che oggi, a seguito del conflitto ucraino, lavorano come muratori nella capitale russa.

Ivan e Viktor dimostrano poco più di quarant’anni; l’aria intellettuale, come succedeva spesso anche in Russia, all’epoca delle «riforme» eltsiniane, quando i salari da fame di medici, insegnanti, tecnici, li costringevano a ingegnarsi come fruttivendoli, taxisti, carpentieri e altro.

Tutti e due sono molto loquaci, anche se gli occhi non nascondono una buona dose di afflizione, che traspare non appena entriamo nell’argomento della guerra in Ucraina. Entrambi infatti provengono dalla città di Artëmovsk, un’ottantina di chilometri a nordest di Donetsk.

Artëmovsk, fino al 1924 si chiamava Bakhmut, è una città del XVI secolo: il fatto strano è che, pur se dall’estate scorsa è sotto controllo governativo, conservi il nome di Artëmovsk, attribuitogli in onore al rivoluzionario bolscevico Fëdor Andreevic Sergeev, «tovarish Artëm».

Oggi conta circa 77mila abitanti – quindicimila meno di venti anni fa. Nonostante il discreto livello industriale (metallurgia e costruzione meccaniche) e agricolo, l’emigrazione è da tempo compagna costante del rione di cui Artëmovsk è capoluogo, nella regione di Donetsk.

«Anche se, per ora, non pensiamo a un’emigrazione permanente», dicono Ivan e Viktor, loro sono stati naturalmente spinti a cercare lavoro oltre frontiera dalle condizioni economiche locali. Prima del conflitto ambedue lavoravano a Donetsk, come moltissimi loro concittadini: «le condizioni di lavoro erano buone» sottolinea Viktor, «la paga anche e non c’era bisogno di cercare lavoro altrove».
Poi però è cominciata la guerra: «Era molto pericoloso rimanere a lavorare là, per via dei continui bombardamenti». D’altronde, dicono, le condizioni nella loro città sono cambiate di poco dall’epoca della cosiddetta «rivoluzione arancione» e anche dopo Majdan.

«Le autorità locali, si comportano esattamente come sempre: prima del conflitto pensavano al proprio tornaconto, così come continuano a fare ora».

Per quanto riguarda i servizi cittadini, dice Ivan «ad Artëmovsk tutto funziona regolarmente: negozi, banche, uffici; l’assistenza sociale viene erogata» – a differenza di quanto Kiev ha deciso per gli abitanti della Novorossija.

Loro due non hanno incontrato particolari difficoltà ad arrivare in autobus a Mosca, nonostante i numerosissimi posti di blocco dei militari.

A qualche compagno di viaggio è capitato di essere trattenuto per accertamenti, in base all’elenco di persone cui non è consentito passare il confine, ma in generale, tutto si è svolto senza problemi.
Problemi ci sono invece stati, raccontano, con la figlia giovanissima di un loro conoscente, che molto attivamente utilizzava «Odnoklassniki» (una specie di Facebook russo) e Twitter.

«In rete la ragazza si esprimeva molto apertamente a favore della politica russa, per l’unione della Crimea alla Russia. Così hanno cominciato a minacciarla: ovviamente in modo non ufficiale, nel senso che le minacce non arrivavano dalle autorità, bensì dal cosiddetto battaglione. Alla fine dei salmi, i genitori sono stati costretti a portarla di nascosto al sicuro in Russia, per sottrarla al battaglione volontario». Infatti ad Artëmovsk è di stanza l’esercito regolare, azzarda Ivan, che sembra voler dire qualcosa di più, ma poi sospira: «l’esercito si comporta in modo del tutto leale nei confronti della popolazione civile: stanno nella loro caserma; a quanto sembra non hanno mai preso parte a combattimenti; nessuno si accorge della loro presenza».

Ma, oltre ai soldati, lì si è piazzato anche il battaglione volontario che porta il nome della città: sarebbero arrivate da lì le minacce alla ragazza.

E Ivan racconta anche dell’appartamento di un suo conoscente, preso a mitragliate perché i volontari sospettano che il proprietario stia combattendo nel Donbass dalla parte delle milizie ribelli.

Quali sono i rapporti tra potere locale e popolazione, chiedo a Viktor. «Inesistenti! Il sindaco della città, da molto tempo in carica, ogni volta si ricandida; ogni volta non si trovano alternative e ogni volta, come tutte le autorità locali, è a favore del governo di Kiev: non importa di che colore sia. Il Sindaco non si preoccupa dei problemi della popolazione: non c’è assolutamente alcun rapporto tra il potere locale e la gente».

E sul versante opposto, chiedo, si può parlare di una classe operaia che prende parte alla vita sociale? «Per niente. Chi è occupato, pensa a mantenere il proprio lavoro, prende tutto così come viene, riscuote lo stipendio, la sera se ne torna a casa e se ne frega di tutto. Non solo non si preoccupano di quanto avviene cento chilometri più giù, nel Donbass, ma nemmeno dimostrano di avere un qualche atteggiamento, che sia pro o contro il governo o le autorità locali». In questo, naturalmente, ha la sua buona parte l’assenza di qualsiasi informazione che non sia quella del governo. «Ancora qualche mese fa, si riuscivano a vedere due o tre canali televisivi russi; oggi non si vede e non si legge più nulla, né dalla Russia, né dalla Novorossija; più niente che non provenga da Kiev. Se si ha accesso a internet, allora si riesce a leggere qualcosa di diverso».

E Washington, dove la mettiamo? «Giustissimo: tutto è stato esattamente studiato e pianificato là; non c’è stato niente di spontaneo» dice Ivan. «E così anche l’Europa è stata ingannata dagli americani. La stessa cosa vale per il referendum: secondo me, l’80% delle persone era a favore dell’Unione doganale con Russia e Bielorussia e non per l’integrazione alla Ue. Tutti quelli che conosco ad Artëmovsk erano di questa opinione».

E come si esce da questa situazione, domando. «Solo con le trattative, solamente mettendosi seduti tutti insieme e parlando; con colloqui seri. Solo trovando un accordo concreto: che sia più autonomia, o federalizzazione o qualcosa di simile. Con la guerra, non se ne esce in alcun modo. L’Occidente continuerà ad armare il Governo; la Russia continuerà a rifornire le milizie e si andrà avanti all’infinito».
Ma le repubbliche, dico loro, hanno già detto di volere la completa autodeterminazione. Mi rispondono: «Noi non siamo d’accordo con la loro separazione dall’Ucraina».

Il discorso sull’autodeterminazione porterebbe via ancora molto tempo e, d’altronde, Federica Mogherini si è già preoccupata di specificare che, da quando è Ministro degli Esteri della Ue, non ha mai detto di attendere da Kiev la concessione dell’autonomia alle regioni orientali dell’Ucraina. Parola della «diplomazia europea»!