Lo scienziato che vince un premio Nobel di solito racconta il mondo della ricerca come un ambito privilegiato della società, dove merito e razionalità hanno sempre la meglio. È una narrazione edulcorata in cui è facile trovare rifugio nella maratona di lauree honoris causa, eventi istituzionali e relativi discorsi che tocca al vincitore.

Il fisico Giorgio Parisi ha scelto una strada diversa, sfruttando il credito del Nobel per raccontare le fragilità della scienza più che le sue virtù teologali. È questo il senso del saggio Tra scienza e politica appena pubblicato per Futura Editrice (pp. 112, euro 15), in cui Parisi raccoglie tre decenni di articoli e interventi sul rapporto tra società e comunità scientifica, pubblicati perlopiù sul manifesto.

Come spiega lui stesso in un’auto-intervista introduttiva al saggio, la pubblicazione è anche un atto di solidarietà: i diritti rimarranno alla casa editrice legata alla Cgil a risarcimento dei danni subiti durante l’assalto alla sede di Corso d’Italia da parte di un manipolo di neofascisti nel 2021.

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IL RAPPORTO DI PARISI con il manifesto non è stato episodico. «Il mio caro amico Marco d’Eramo, allora redattore del giornale, mi propose negli anni Ottanta di fare una rubrica con periodicità mensile su temi di mia scelta» spiega il fisico. «È stata una grande palestra comunicativa». Nei suoi interventi, Parisi racconta la scienza vista da dentro, senza nasconderne i lati meno edificanti.

Ad esempio, fa nomi e cognomi degli scienziati più bravi a curare la propria immagine, sapendo che nella scienza attuale il prestigio sociale aiuta a trovare finanziamenti. Sono stati «ottimi addetti stampa di se stessi» nomi blasonati della comunità scientifica come René Thom – il fisico della «teoria delle catastrofi» – o Benoit Mandelbrot, che tempesta i colleghi di lettere in cui si lamenta: «Non mi hai citato». O ancora Ilya Prigogine, autore di «una campagna stampa che ha probabilmente contribuito a fargli assegnare il premio Nobel».

È uno dei risvolti di una scienza che «si presenta come un vasto settore industriale, in cui operano varie aziende tutte dedite a produrre conoscenze scientifiche, aziende in competizione tra loro». Di qui il tentativo di pubblicizzare le imprese scientifiche con lo stesso linguaggio «della pubblicità per capelli: prima della cura e dopo la cura».

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Nei saggi di Parisi ci sono riferimenti che oggi appaiono profetici, come quelli «all’immagine negativa che si va diffondendo della scienza, caduta d’immagine di cui l’ambientalismo e la crisi del progressismo razionalista sono insieme sintomi, cause ed effetti». Sembra un editoriale di oggi ma sta in un articolo del 1988, in cui al futuro premio Nobel non sfuggiva che anche la truffa dell’omeopatia doveva in qualche modo interrogare la comunità scientifica.

ERA GIÀ EVIDENTE ALLORA un paradosso: mai come oggi la tecnologia plasma ogni aspetto della nostra vita individuale e collettiva, eppure con la scienza abbiamo un rapporto piuttosto infantile. Parisi cerca di risolverlo a modo suo: «quando l’opinione pubblica collega direttamente scienza e tecnologia di punta, saltando a piè pari il faticoso lavoro intermedio, rinsalda la dimensione “magica” della scienza, rafforza il mito dello scienziato, oracolo della “verità naturale”».

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In nome del «mito», allo scienziato vengono posti quesiti riguardo a temi in cui non è più esperto di altri, in cui rischia persino di rendersi ridicolo. Come racconta Parisi, successe persino a un altro Nobel, lo scopritore dei quark Murray Gell-Mann, che ai generali statunitensi che lo consultavano sulle strategie militari in Vietnam, chiese «Questa politica del taglio delle orecchie è davvero efficace?». Come se il metodo scientifico fosse lo strumento giusto per valutare l’atrocità della guerra.

In più occasioni l’autore torna sulla figura del fisico Marcello Cini – uno dei «cattivi maestri» dei nostri anni ‘70 – e sull’Ape e l’architetto, il libro che fece discutere esperti e cittadini sulla «non neutralità della scienza». Quel metodo, scrive Parisi, «ha ancora molto da insegnare».

Eppure, il dibattito critico sul ruolo sociale della scienza è sostanzialmente sparito dalla vita accademica. Chissà che al premio Nobel non riesca anche l’impresa di far tornare a discutere gli scienziati.