Un nuovo spettacolo di Antonio Latella è sempre un oggetto degno di grande attenzione. Ma questa volta il suo Chi ha paura di Virginia Woolf? (produzione del Teatro stabile dell’Umbria con il contributo della Fondazione Cucinelli, ancora in una lunga tourné italiana) segna davvero un risultato importante, anche rispetto ad altre sue elaborazioni di testi chiave del ’900, pure rivelatori come Un tram che si chiama Desiderio o Le lacrime amare di Petra von Kant. Questa attuale «fotografia» americana in realtà scompone e analizza in maniera profonda, fisica quanto interiore, i rapporti di coppia e di potere che sono alla base del testo di Edward Albee, ritraendo senza veli la crudeltà e il bisogno di tenerezza tra le persone. Nel linguaggio come nella fisicità del gesto: due grammatiche che si intersecano e si rilanciano verso un buco nero che ogni volta sembra colmarsi e si riapre. Rapporti alla base di ogni convivenza, che come qui scivolano dalle tenerezze di maniera ai toni più forti e sguaiati, con la stessa intensità e perfino le stesse «motivazioni». Che dalla dimensione casalinga possono poi degenerare e riprodursi a livello planetario.

QUI L’ARISTOCRAZIA intellettuale di un campus degli Stati uniti, svela quella conflittualità tremenda e contradditttoria che dalla sfera intima si allarga alle carriere professionali e sociali (e poi chissà, a cascata…), nascendo dalla fisicità stessa delle creature, dalle loro pulsioni e contraddizioni, tra desiderio e frustrazione. E questo può mostrare in profondità Latella grazie anche ai due protagonisti, la coppia «ben piazzata» impersonata da Sonia Bergamasco e Vinicio Marchioni, due attori entrambi di prestanza fisica e di chiaroveggenza intellettuale, scatenati e inesauribili nel loro confronto/scontro destinato a non placarsi mai, nel rinfacciarsi reciproco maternità improbabili e gelosie da pianerottolo. Tutto abbondantemente irrorato dagli alcolici, oltre che dai minimi gesti del quotidiano. E che usa da sponda, quasi uno specchio rovesciato, la coppia più giovane (Paola Giannini e Ludovico Fededegni), soggiogata e insieme tentata da quella bagarre, di cui finisce vittima.

IL TESTO fu reso celeberrimo dalla edizione cinematografica del 1966 con Liz Taylor e Richard Burton (ma in Italia il battesimo storico fu di Zeffirelli nel ’64, un cast super con Sarah Ferrati, Enrico Maria Salerno e Umberto Orsini) e non mancò di suscitare scandalo e qualche prurito censorio. Oggi si resta avvinti dal meccanismo infernale di quei rapporti, un catalogo memorabile di sfumature ed eccessi. E forse perfino la filastrocca bambinesca del titolo, che tira dentro una delle più autorevoli intellettuali del secolo, oggi ci dice qualcosa in più, su valori e funzioni dei sentimenti, nel rapporto di coppia come nella società intera. La traduzione è di Monica Capuani, la drammaturgia di Linda Dalisi. Le musiche e il suono egregiamente governati da Franco Visioli.