«Un tempo mi commuovevo anche solo leggendo un romanzo rosa, ma dopo Birkenau ho smesso di piangere quasi del tutto». Sorride, un’espressione serena che le illumina il volto, mentre scandisce con calma le parole. Ginette Kolinka ha 95 anni, ma quando racconta la sua storia torna ad essere la ragazza, ne aveva 19 all’epoca, che nel marzo del 1944 fu arrestata dalla Gestapo e dalla Milizia di Vichy e deportata nel lager di Birkenau dove trascorse sei mesi prima di essere evacuata a Bergen-Belsen e quindi a Theresienstadt. La sua famiglia, denunciata ai tedeschi in quanto comunista era già fuggita da Parigi nell’estate del 1943 per rifugiarsi a Avignone nella cosiddetta «zona libera», dove, questa volta perché ebrei, lei, suo padre, il suo fratellino Gilbert di 12 anni e un suo nipote saranno nuovamente vittime di una delazione che li porterà prima a Drancy e quindi in Polonia. Solo Ginette farà ritorno a casa, gli altri finiranno nelle camere a gas appena arrivati nel campo. Dopo aver lungamente custodito quei terribili ricordi, questa donna coraggiosa, sopravvissuta a stento alla deportazione, che al momento della liberazione pesava solo 26 chili, ha scelto negli ultimi vent’anni di raccontare ai giovani ciò che ha vissuto. Dopo che la sua seconda vita era trascorsa vendendo insieme al marito articoli di merceria al mercato di Aubervilliers, la banlieue operaia del nord di Parigi dove è nata, ha deciso di sostenere l’attività dell’Union des déportés d’Auschwitz partecipando agli incontri nelle scuole e accompagnando gli studenti nei «viaggi della memoria». Nei giorni scorsi ha presentato il suo libro Ritorno a Birkenau, scritto con la giornalista Marion Ruggeri, appena pubblicato da Ponte alle Grazie (pp. 90, euro 12) alla Casa della Memoria e della Storia di Roma.

Nelle prime pagine del suo libro l’arrivo nel campo è descritto così: «fin lì eravamo ancora esseri umani». Poi, cosa succedeva?
Che in poco, pochissimo tempo si diventava «niente». Appena arrivate venivamo ammassate in una grande sala e costrette a spogliarci completamente. Ricordo ancora la vergogna di essere nuda davanti a delle estranee. Cercavo di coprirmi come potevo con le mani, ma una delle addette mi prese il braccio per tatuare la matricola: 78599. Altre donne cercavano di grattare via quel numero, pensavano di poterselo togliere, ma io ero sopraffatta dal pudore, pensavo solo al fatto di essere nuda. Poi venivamo rasate, prima la testa e quindi il pube. Infine ci davano dei vecchi vestiti per coprirci in qualche modo. Non le divise a strisce che si vedono nei film. No, per le prigioniere ebree a Birkenau perfino quello era considerato un lusso. Così, a poche ore dal nostro arrivo tutto era cambiato intorno a noi. Umiliate in ogni modo, la mente svuotata, ci preparavamo a fare della sopravvivenza il nostro solo orizzonte. La nostra umanità era stata spazzata via.

In «Ritorno a Birkenau» lei descrive proprio cosa abbia significato, giorno dopo giorno questa lotta per la sopravvivenza…
Non ci sono parole né film per descrivere davvero ciò che abbiamo vissuto nel lager. Ciò che l’odio ha spinto i nazisti a fare, ciò che ci hanno fatto subire. È impossibile anche solo da immaginare. Al risveglio, i colpi di frusta che spezzano le ossa, l’appello, la fame, questa zuppa che assomiglia a dell’acqua sporca raccolta in una ciotola arrugginita, la sete, il freddo, il lavoro, ancora i colpi subiti, le punizioni. Il fumo che esce dall’edificio vicino al nostro blocco e quell’odore di carne bruciata e di sporcizia. A ripensarci, mi sento morire. Ma, all’epoca, cercavo solo di sopravvivere. Avevo fame e trovare da mangiare era la prima e talvolta l’unica preoccupazione che avevo in testa. Per anni, una volta tornata a casa mi ritrovavo a frugare nella pattumiera in cucina alla ricerca di qualcosa di commestibile.

Donne ebree di fronte alle loro baracche ad Auschwitz

Da tempo lei racconta ciò che ha vissuto ai ragazzi delle scuole francesi e li accompagna nelle visite al campo di Auschwitz-Birkenau. Si è chiesta cosa provino ascoltandola?
È difficile rispondere al loro posto. Quello che posso dire è che mi ascoltano, non credo riescano ad addormentarsi mentre parlo, ma potrei anche sbagliarmi. Di una cosa però sono sicura: qualcosa è cambiato con il passare degli anni. Un tempo l’atteggiamento era spesso del tipo: «meno male c’è l’incontro con quell’ex deportata così saltiamo l’interrogazione o l’ora di matematica». Adesso invece, forse perché anche i professori sono stati a loro volta formati e sanno come parlare agli studenti di questi temi, come prepararli all’incontro, perché sanno che le cose che mi sentiranno dire sono dure, difficili da digerire per un ragazzo… Beh, ora qualcosa è cambiato, i ragazzi sono attenti, partecipi, fanno molte domande, spesso mi chiedono cose su cui io stessa mi pongo ancora degli interrogativi. Cercano di immaginare come potessimo farcela in un tale inferno, ma mi domandano anche come facevamo a lavarci o, soprattutto le ragazze, come facevamo quando arrivavano le mestruazioni. È facile rispondere in questi casi. Non ci lavavamo affatto e il ciclo si era bloccato da solo una volta arrivate nel campo.

Per quei giovani incontrare una testimone come lei può fare la differenza per comprendere davvero cosa è stato l’Olocausto. Come trasmettere questa memoria in futuro?
Mi chiedo spesso chi potrà farsi carico della testimonianza di ciò che accadde allora quando noi sopravvissuti non ci saremo più. Se ne parlerà di meno, si smetterà di parlarne del tutto? Mi ricordo di un ragazzo che, durante un incontro a scuola mi chiese, quasi con sospetto: «Ma come fa a ricordarsi tutto con questa precisione?». La risposta è che parlo tenendo gli occhi chiusi, mentre rivedo scorrere tutto davanti a me. Ricordo bene alcune cose, altre le ho dimenticate. Su altre ancora non sono più così sicura. Così, mi sembra di ricordare che una volta alla settimana i nazisti ci davano qualcosa in più da magiare: una semplice fetta di salame o un cucchiaio di marmellata. Però, forse, questo piccolo ricordo felice me lo sono semplicemente immaginato.

I responsabili della deportazione erano tedeschi, ma furono aiutati dai collaborazionisti locali. E francesi come lei erano anche le persone che vi denunciarono ai nazisti. Cosa ha pensato di costoro in tutti questi anni?
Sì, certo, furono dei francesi a denunciarci. Forse dei vicini di casa, forse qualcuno che ci aveva visto lavorare al mercato. Cosa penso? Che nella vita ci sono persone per bene e disgraziati, allora come oggi. Perché lo hanno fatto? Per caso? Perché un bambino suo coetaneo ha visto che il mio fratellino era circonciso e lo ha raccontato ai genitori. Per interesse? Dei collaborazionisti si sono presi la casa dove viveva la mia famiglia dopo che siamo fuggiti da Parigi. Per odio? Siamo stati denunciati una prima volta perché comunisti e in seguito in quanto ebrei. In realtà, una volta tornata a casa non ci ho pensato su granché, magari erano persone che vivevano ancora intorno a me. Però mi sono sempre ripromessa una cosa: se fossi riuscita a sapere chi era stato gli avrei solo voluto chiedere: «Perché?».

In Francia l’antisemitismo è tornato d’attualità, ci sono state violenze e perfino omicidi. Come è possibile a più di settant’anni dalla liberazione di Auschwitz?
Non c’è un tempo per l’odio, le persone ce l’hanno dentro, quasi non sanno neppure perché ma è lì pronto a venir fuori in ogni momento. Ci sono individui che crescono immersi nell’odio, ne fanno quasi la propria ragione di vita e talvolta lo tramandano da una generazione all’altra. Del resto, si sa, quando le cose vanno male la gente non pensa mai di essere responsabile delle proprie sventure: è sempre colpa di qualcun altro. E l’«altro» è sempre una minoranza, a cominciare dagli ebrei.

Quando incontra gli studenti per raccontare cosa accadeva a Birkenau le è mai capitato di respirare questo clima, ha mai percepito dell’ostilità?
Direi che mi è capitato solo una volta, con un ragazzo. Anche se si deve considerare che ci vorrebbe proprio un bel coraggio a dire «l’incontro con lei, un’ex deportata mi ha lasciato del tutto indifferente», o peggio. I gesti antisemiti, non va dimenticato, in genere accadono di notte, non di giorno, alla luce del sole. Il problema è che i pregiudizi sono duri a morire. In un’altra occasione, un ragazzino mi disse «io no, ma i miei nonni sono antisemiti». «Ah davvero, e perché?», gli chiesi. «Ma perché voi ebrei siete tutti ricchi, siete sempre in televisione e siete nel mondo degli affari». Ecco, questo è il genere di idiozie che circolano e che possono finire per influenzare le persone. Detto questo, nessun bambino nasce antisemita: lo diventa in base all’ambiente nel quale cresce e alle idee che gli mettono in testa.