«Non potevo fare diversamente», ha detto Giorgia Meloni nella notte tra giovedì venerdì, subito dopo lo strappo: voto contrario alle candidature di Costa e Kallas per la presidenza del Consiglio europeo e l’Alto commissariato agli Esteri, astensione su von der Leyen per il secondo mandato alla presidenza della Commissione. A quel punto, effettivamente, la premier italiana non aveva altra strada. Oltretutto esporsi a favore di Ursula avrebbe fatto alla candidata più danno che altro, spingendo i socialisti ad affossarla nel segreto dell’urna, il 18 luglio nell’aula di Strasburgo. In compenso la premier avrebbe potuto gestire la delicata partita diversamente prima dell’epilogo, cogliendo l’assist che le aveva consapevolmente offerto il capo dello Stato.

CON SOCIALISTI E LIBERALI, capitanati da Scholz e Macron, che insistevano sul cordone sanitario contro Ecr e che avevano la forza, nonostante la sconfitta elettorale, per minacciare di abbandono il Ppe quella strada era sbarrata. Per questo Mattarella aveva aperto la pista per uno scarto radicale, spostando il baricentro della trattativa dagli eurogruppi ai Paesi. Su quel fronte, all’inizio della cena, Meloni poteva contare su 6 o 7 Paesi irritati per l’atto d’imperio e gli stessi popolari sarebbero stati probabilmente pronti a sfruttare l’appiglio. Non a caso avevano martellato per ore riprendendo alla lettera le parole del presidente italiano: «Non si può prescindere dall’Italia». Meloni, invece, per segnalare la sua irritazione è rimasta muta nella prima fase della discussione, quella sulle linee strategiche, e già questo aveva fatto calare di molto le sue posizioni. Quando si è decisa a parlare lo ha fatto rivendicando il diritto dell’Ecr, come terzo gruppo europarlamentare, ad avere voce in capitolo. Messe così le cose non poteva che ritrovarsi isolata.

L’ISOLAMENTO LE COSTA il fallimento di una strategia politica perseguita per due anni, quella che puntava tutto sulla legittimazione in Europa, con il doppio obiettivo di farsi regista di uno spostamento a destra nell’asse dell’Unione e di assumere al suo interno un ruolo centrale, del resto rivendicato sino allo sfinimento in questi mesi: l’Italia tornata protagonista. È nell’ordine delle cose che l’intera opposizione, con Schlein e Conte in prima fila, si trasformi ora in un plotone d’esecuzione che la accusa di aver condannato il Paese all’irrilevanza. Meloni non solo si ritrova emarginata nel caminetto buono della politica europea ma è isolata anche a destra. L’intoppo nel dialogo con il Ppe gonfia le vele di Identità, con Salvini che più truculento che mai torna a denunciare «il colpo di Stato europeo al quale la democrazia impone di reagire creando un grande gruppo alternativo» mentre Marine Le Pen si frega le mani, e di Orbán, che si sta dando da fare per dar vita a un terzo gruppo di estrema destra a Strasburgo. Peraltro sul fianco destro della maggioranza italiana non è che le cose stiano messe molto meglio. Ora a trattare per uscire dall’impasse con la nomina di un commissario di rilievo è direttamente Tajani che, in quanto popolare, può essere ricevuto in società. «Non c’è nessun isolamento dell’Italia: distinguiamo l’Italia dai Conservatori», afferma infatti.

NELLA TRATTATIVA IN VISTA del voto a Strasburgo, in effetti, l’Italia ha qualche arma in più di quante ne avesse nelle disastrose notti di Bruxelles. Servono 361 voti. Sulla carta von der Leyen ne ha 399 e sono pochi perché i franchi tiratori saranno tanti. Del resto nessuno negherà all’Italia, e al suo capo dello Stato, un commissario di serie A. Ma per riscattare l’onta subìta la premier ha bisogno di qualcosa in più: deve riuscire a soffiare al francese Thierry Breton la postazione privilegiata di ultimo vicepresidente esecutivo disponibile e con Macron deciso a tutto non sarà certo facile. Però Macron potrebbe arrivare al 18 luglio azzoppato e tra popolari ed alleati è già in corso un braccio di ferro tra chi vorrebbe riproporre una commissione quasi fotocopia di quella uscente e chi, come Fi, reclama invece «discontinuità».

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Di qualche spazio, nonostante gli errori clamorosi commessi in nome del «riconoscimento politico», la premier ancora dispone e deve sperare di riuscire a usarlo. Altrimenti si troverà di fronte a un dilemma: supportare lo stesso von der Leyen, accettando la sconfitta, oppure negare alla sua principale alleata l’appoggio, sperando di dimostrarsi così essenziale. Ma sapendo che, se le dovesse andare male, il prezzo da pagare sarebbe molto più che esoso.