Il toponimo «Senigallia» devo averlo incontrato la prima volta al liceo, sull’Argan o a lezione di Arte, per via della Madonna dipinta da Piero della Francesca (che però è conservata a Urbino): associazione indelebile. A Senigallia ha trascorso le sue ultime settimane di vita Gianni Mura, classe 1945 e fuori-classe del giornalismo. Si era recato sulla costa marchigiana per una convalescenza, ma poi le restrizioni dovute al coronavirus non gli hanno più consentito di fare ritorno a Milano e così se n’è andato, il 21 marzo scorso, guardando l’Adriatico. La topografia è stata una sua magnifica ossessione, sia nella veste di cronista sportivo sia in quella di ‘annalista’, ma i due generi in realtà stingevano l’uno nell’altro. Lo sanno bene gli appassionati di ciclismo che ogni estate, dopo aver seguito la tappa del Tour de France in tv, attendevano – ormai bisogna usare i verbi al passato – di leggere su Repubblica la sua corrispondenza, uscendone sempre arricchiti e felici. Prediligeva l’onomastica, l’enigmistica, gli ossimori, i giochi di parole. I suoi articoli contenevano una pioggia di nomi: valli, alberi e fiori, paesi, chiese, città, trattorie, vini, formaggi; e poi cantanti, scrittori e vecchi campioni, tirati fuori ogni volta come dei genii locorum. Anche i mestieri desueti portavano un nome degno di essere amato e salvato: il «trombettiere», che dettava per telefono il pezzo alla redazione; l’«ardoisier» (da ardesia), addetto alle segnalazioni dei tempi e dei distacchi sulla lavagnetta, dal cuore della corsa.
Per Mura anche l’articolo doveva avere un cuore: che includeva sempre, oltre all’analisi e all’interpretazione tattica e agonistica, brani di vissuto. Col passare degli anni il suo vissuto aveva acquistato un’invidiabile profondità ‘storiografica’: «ho visto» dunque «so», come nel greco antico. Empatico, acuto, umoristico, Mura si era forgiato una scrittura riconoscibile: cioè uno stile. Frasi brevi, sintassi nervosa, quasi brachilogica, mai rotonda. Preferiva sorprenderci con agguati e calembour («pathos e patè») piuttosto che ricorrere all’ornato. Sono convinto che all’origine della sua economia linguistica, talvolta un po’ ruvida ma sempre cordiale, ci fossero sì buoni studi ma anche una precisa scelta di campo, una opzione morale. Mura non inseguiva la bella frase. In definitiva restava ancorato alle cose, al «referente», e visto che stiamo parlando di Francia mi sentirei di spendere il nome di Simenon: pochi tratti ben selezionati riescono a dare profondità psicologica persino a un paesaggio intravisto dietro il parabrezza.
Se poi la tappa era noiosa o insipida, meglio andare per albicocche: «Le albicocche del Valais sono più buone di quelle savoiarde, ma in cima alla mia classifica restano Drome e Ardèche. Svizzera verde e blu, campi e boschi e laghi e fiumi, ma sole africano…» (21 luglio 2016). L’anno seguente conferma: «Ritrovate con piacere le albicocche della Drome, per me le migliori di Francia» (19 luglio). E tre giorni dopo: «Le tappe calde e calme consentono soste: al cimitero di Lourmarin sulla tomba di Camus e prima, ad Apt, per comprare albicocche e ripassare i ricordi su Pierre Ponson du Terrail, che fece i suoi studi ad Apt prima di creare il personaggio di Rocambole, il ladro-gentiluomo…». Le digressioni di Mura! Digressioni sia in senso figurato – deviare dal discorso sportivo –, sia in senso proprio: deviare dal tracciato della corsa per una buona causa, preferibilmente eno-gastronomica.
Suonerà buffo, ma questa liturgia topografica celebrata ogni anno ‘riscattava’ antiche consuetudini, come lo spiegamento in viaggio delle cartine stradali Michelin – che ormai non fanno più parte della dote per le vacanze all’estero –, o la ricerca di un nome microscopico nelle tavole squadrate dell’atlante. Mura al Tour ridava statuto persino alla (deprezzata) geografia di scolastica memoria: nessuna insegnante era stata capace di animare le vene azzurre e le macchie verdi e marroni come faceva lui sul giornale, schizzando i paesaggi della provincia francese e snocciolando le località toccate da corridori e suiveurs – continuava a chiamarli così, nonostante le auto dei giornalisti da molti anni abbiano abbandonato la ‘carovana’.
Un discorso a parte meritano le montagne, croce e delizia del ciclismo (anche moderno). Agli occhi di Mura le Alpi e i Pirenei possiedono una memoria agonistica, oltre che geologica. Rileggere, fra i tanti pezzi orografici dal Tour, «Le curve cupe dei Pirenei» (2000), nell’antologia del Saggiatore Non gioco più, me ne vado (titolo sonante: basta pronunciarlo e sùbito si sente la voce di Mina). Vi sfilano le vette ‘maledette’ – Aubisque, Peyresourde, Aspin, Tourmalet, Portet d’Aspet –, sembrano le stazioni di una via crucis, appunto: a salire ma anche a scendere. Scendere «a tomba aperta» dicevano un tempo i cronisti, perché dietro una curva poteva spalancarsi la porta dell’Erebo. «Le cose più vecchie – scrisse una volta Mura – le ho lette sui sacri testi, quelle un po’ più recenti le ho sentite raccontare, quelle di Merckx le ho viste» (Merckx, stesso suo anno di nascita). Tour del 1971, discesa del col de Menté. Fu il teatro del primo dramma – il dramma sportivo – di Luis Ocaña, lo spagnolo della Bic dalla faccia squadrata e malinconica, che pochi giorni prima aveva strappato la maglia gialla al «cannibale» Merckx umiliandolo sulle Alpi: rovinò sull’asfalto «in un uragano di vento e grandine» (Mura), piombò Zoetemelk e lo travolse, finì all’ospedale. Ricordo bene quell’estate lontana, a Lèvanto. Al mattino in spiaggia vedevamo i ciclisti a colori dentro biglie di plastica da far correre sulla pista di sabbia; al pomeriggio li scrutavo in bianco e nero al bar, nelle immagini della tappa trasmesse dalla Rai. Più di trent’anni dopo, per il decennale della morte violenta di Ocaña, Mura scrisse un lungo e commovente ritratto che è forse il suo pezzo più bello: c’è la rievocazione del col de Menté, c’è tutta la biografia, segnata dal destino, con i flashback e i primi piani come in un montaggio filmico, c’è la pietas… Ricapitola una stagione del ciclismo moderno, scrivendo il seguito della nostra adolescenza. Comincia così: «Uno sparo all’ora di pranzo, nelle cantine della sua tenuta, a Caupenne d’Armagnac. È il 19 maggio del 1994. Luis Ocaña s’è sparato alla tempia sinistra. Strano, perché non è mancino…».
All’epopea delle Alpi appartiene il Mont Ventoux, quello dell’ascesa di Petrarca – definito una volta da Mura «primo degli scalatori famosi nella notte del 25 aprile 1336». Il 13 luglio 1967, invece, la «montagna calva» si prende la vita di Tom Simpson, corridore britannico: è uno spartiacque. Mura, giovanissimo inviato della Gazzetta dello Sport, è al suo primo Tour, gli tocca – ironia tragica – il «pezzo di colore». L’articolo, «Chi muore ha sempre torto», esce due giorni dopo con questo attacco: «Non ci saranno a Mariakerke [dove Simpson abitava, periferia di Gand ndr] arrivi e partenze né più macchine con scritto Good Luck. L’ultima era a 1 km dalla cima e Simpson non l’ha vista». Quanto al presunto doping, osserva prudentemente: «A venti ore dalla morte i santoni dicono che era carico fino ai capelli. E magari hanno ragione ma potrebbero avere il buongusto di aspettare l’esito necroscopico. Invece con una mano si asciugano una lacrima, una tonda e lucente troppo bella per essere vera, e con l’altra ti bussano al cuore e hanno fretta di avere ragione…». In queste righe contro gli ipocriti, scritte da Mura quand’era ancora un ragazzo, c’è già quell’attitudine ‘umanistica’ che molti anni dopo, di fronte all’agonia sportiva ed esistenziale di Pantani, lo terrà fuori dal coro. Understatement e moralità, due virtù precoci che sarebbero divenute un (raro) marchio di fabbrica.
Per ritrovare il pezzo su Simpson ho preso dallo scaffale pensile blu La fiamma rossa (minimum fax 2008), un’antologia «dalle strade» del Tour che anche Giovanni Raboni a un certo punto aveva caldeggiato. È dedicata significativamente alla memoria del povero Ocaña e di Luciano Pezzi, direttore sportivo di Gimondi e Moser. Nella mia biblioteca sentimentale va insieme a Ronda di notte di Bruno Raschi, prima firma del ciclismo alla Gazzetta e caposervizio del giovane Mura – tutto un altro stile di scrittura però. E allora torniamo alla scrittura.
La natura del giornalismo è per definizione occasionale, effimera, eppure c’è ancora chi ritaglia le pagine letterarie e ripiega le recensioni dentro i libri. Per le cronache sportive è più complicato, ma ‘certi’ Mura letti la mattina non scadevano di sicuro al tramonto: interviste, reportages dalle tappe decisive del Tour, obituaries, commenti alle partite della Nazionale, tutto il meglio è archiviato, prima che nelle cartelline con le alette, nei cassetti della nostra memoria – sempre che si possa ancora parlare della memoria come di un mobile à tiroirs. Gli archivi on-line sono freddi, per sopravvivere all’oblio non è sufficiente il corpus, ci vogliono anche lettori ‘attivi’. Mura, ne siamo certi, non ne ha perduto nemmeno uno, e al fischio finale è uscito a testa alta.
A partire dagli anni sessanta, quando la popolarità di Gianni Brera finì nel mirino degli intellettuali, il giornalismo sportivo è stato giustamente classificato dai linguisti e dai lessicografi come «lingua speciale», una lingua di settore, cioè, dotata di un proprio riconosciuto vocabolario tecnico-descrittivo. Brera si vantava di averne inventato uno per l’atletica e il calcio; Mura – il migliore dei suoi allievi – non deve essersi mai posto un problema del genere, e forse non ce n’era più bisogno. Gli bastava la lingua d’uso, quella di tutti i giorni. Appena poteva la ribaltava, la faceva ruotare, con leggerezza. Mai un’imbottitura: era il suo modo di drammatizzare il quadro.