Una importante differenza passa tra un fotoreporter e un «fotografo-d’arte». Luc Boltanski la spiegò dal punto di vista della sociologia: per il primo la fotografia deve avere «una totale sottomissione alla realtà», per il secondo «è innanzitutto affare di gusto e di libera scelta». Aggiunse, però, che gli scatti di un «professionista della stampa» di frequente non sono mai «soltanto l’analagon del reale», ma possiedono quel «qualcosa in più» che sempre coincide con le «intenzioni» del fotografo. Questa semplice precisazione è fondamentale per inquadrare la fotografia di Lisetta Carmi, che si sviluppa, salvo poche eccezioni, nell’ambito del reportage, seppure d’autore. Assimilarla a generi differenti equivale a distorcere il significato più profondo del suo lavoro, che è stato un percorso non solo di conoscenza ma – per sua stessa ammissione – di autocoscienza. In questo senso il suo occhio ha usato la fotografia in primis per farne lo speciale scandaglio di un’esplorazione di natura socio-antropologica, di là dagli aspetti formali o estetici del linguaggio fotografico.

Dopo l’importante retrospettiva del 2015 a Genova (la città dove nacque nel 1924), il Museo di Roma in Trastevere dedica a Lisetta Carmi una nuova mostra (ancora fino al 3 marzo), curata anch’essa, come la precedente, da Giovanni Battista Martini. Con il titolo La bellezza della verità l’esposizione romana si distingue, però, dalle altre perché insieme alla rassegna degli splendidi ritratti in bianco e nero (Pound, Scherchen, Sciascia, Sanguineti, Lacan e molti altri) e alla sequenza delle foto dei luoghi del lavoro (porto), della cura (sala parto dell’ospedale Galliera) e della memoria (cimitero di Staglieno) della sua città, propone in un cofanetto della Postcart Edizioni (4 vv., pp. 280, euro 58,00) oltre al catalogo altri tre libri dal valore particolare: quello sui travestiti, quello sulla Sicilia – entrambi tornano così disponibili –, più uno, inedito, sulla metropolitana di Parigi.
Iniziamo da I travestiti. Pubblicato nel 1972 a cura di Sergio Donnabella, ebbe la sfortunata sorte di essere rifiutato dalle librerie per il suo contenuto scandaloso. Tutte le copie, prima di finire al macero, furono ritirate da Barbara Alberti, che le regalò agli amici. Almeno così racconta la stessa fotografa in un’intervista filmata che si può vedere nella mostra. Tuttavia dall’archivio di Cisternino – dove la Carmi vive dal 1979, avendo lì fondato un ashram ispirato al guro indiano Babaji Herakhan Baba – è spuntata inaspettatamente una maquette di cartone realizzata artigianalmente dalla Carmi stessa nel 1967, con trentaquattro foto numerate, formato 30×40. Lisetta aveva iniziato a fotografare i travestiti a Genova nel ’65 e continuò a farlo fino al ’71. L’idea di pubblicare il reportage giunse due anni dopo l’incontro e l’amicizia con quella «avanguardia paradossale e contraddittoria». A distanza di più di cinquant’anni si realizza così la pubblicazione sui travestiti esattamente nella forma – rimasta inedita – che lei stessa aveva ideato.

Nel 1976, lo sguardo di Lisetta si posa sui paesaggi della Sicilia grazie a un incarico della Dalmine. Acque di Sicilia è il titolo della raccolta di quelle fotografie che – precisò Sciascia nel testo di accompagnamento – parlavano «poesia – e cioè mito, memoria, sentimento». Con la stessa curiosità e simpatia che circa dieci anni prima aveva rivolto a un piccolo gruppo di uomini prostituiti tra i caruggi, Lisetta guarda a una più estesa comunità, quella dei siciliani, per coglierne caratteri e comportamenti peculiari, dettagli che mostrino la loro singolare identità affinché, ancora una volta, la diversità dei linguaggi, comportamenti e delle forme non omologate dell’esistenza possano contrapporsi al modello della società dei consumi. Il reportage, in pellicola bianco/nero e colore, utilizza lo stratagemma di raccontare la vita della gente pur assecondando le necessità della comunicazione aziendale, che prevedeva una ricognizione dei percorsi dell’acqua nell’isola. Ora Sicilia – questo il titolo del nuovo volume – contiene una selezione dei ritratti e degli scorci della vita cittadina del primo. In mostra le immagini si distinguono per l’icasticità. Appare evidente la loro distanza, ad esempio, dalle ridondanze barocche di Ferdinando Scianna o Enzo Sellerio, così come dagli scatti di Pepi Merisio; mentre la minuzia con cui sono ripresi annunci, cartelli e scritte anticipa per certi versi quella pratica «analitica» della fotografia che in seguito Mario Cresci elaborarerà a Matera con buona dose di sperimentalismo.

Anche Metropolitan, quarantadue foto della metropolitana di Parigi, nasce in origine come libro d’artista (1965), solo adesso tirato in mille copie come gli altri, in occasione della mostra di Roma. Nel breve testo che introduce le immagini, Lisetta scrive: Parigi è «una città in cui tutti possono convivere e usare questo mezzo di trasporto perfetto che li porta – con ordine e per me meraviglia – dove la loro esistenza li chiama». È nel sottosuolo della ville lumiere che con sorpresa lei trova addensata quella varia umanità che le consente di sperimentare una pluralità di modi di ripresa, senza prediligere un genere, un po’ come provavano a fare gli scrittori del Nouveau Roman. Non è un caso che nella sua maquette cartonata le foto si alternino alle pagine di Instantanés di Alain Robbe-Grillet.
Lisetta smise di scattare alla fine degli anni settanta, ma per una strana combinazione della vita la fotografia continua a riservarle ancora importanti soddisfazioni, cioè curiose sorprese per noi.