L’originalità non è il tratto distintivo della pittura romana al dissolversi del Seicento. La trama è quella consueta dei tempi di crisi: le nostalgie retrospettive soppiantano ogni slancio in avanti e favoriscono ampi spazi di omologazione. I pittori si muovono in un recinto strettissimo, dentro una tenaglia che stritola i tentativi di originalità e rifiuta programmaticamente l’avanzamento. Perciò mettono a punto una linea comune, convinti che la via per superare lo sconcerto della regressione in professionisti di periferia sia una sola, rifugiarsi all’ombra dei grandi maestri (da Raffaello a Correggio, da Annibale Carracci a Nicolas Poussin). Inevitabile che questo approccio abbia creato un cortocircuito storiografico nel profondo contrasto tra l’entusiasmo dei contemporanei per un’arte vissuta come senza tempo e la percezione di totale irrilevanza per quelle tracce di immobilismo figurativo da parte dei posteri.
Giovanni Previtali ci ha lasciato una delle più convincenti definizioni di quest’età quando nella sua Periodizzazione della storia dell’arte italiana l’ha definita sostanzialmente come una regione dai confini sfumati. Un periodo dell’arte in cui la cronologia è concetto secondario. La sua idea era che la difficoltà dei conoscitori di avvicinarsi al secondo Seicento e restituirne il senso dipendesse dalla perdita di slancio innovatore e dalla tendenza al ristagno creativo di quella cultura: «Mentre nessuno studente di storia dell’arte scambierebbe un prodotto del 1270 per uno del 1320 – poteva argomentare – conoscitori agguerriti sono stati spesso assaliti da legittimi dubbi sulla datazione di opere tra il 1630 e il 1680, e non credo soltanto perché, come suol dirsi, si tratta di un periodo meno studiato».
A queste stesse conclusioni possiamo giungere – oggi che le conoscenze sono decisamente progredite e il pregiudizio si è dissolto in maniera definitiva – incontrando uno dei protagonisti di quella scena nella raccolta di saggi a lui dedicata nel volume Luigi Garzi 1638-1721 Pittore romano, a cura di Francesco Grisolia e Guendalina Serafinelli (Officina Libraria, pp. 336, € 30,00). Le parole di Michela Di Macco sono quanto mai appropriate per inquadrarcelo compiutamente e confermarci come in quello spazio di anni la levatura artistica fosse associata alla convenzionalità: «Garzi possiede un’efficace ampiezza di riferimenti, un’intelligenza visiva capace di selezionare appropriatamente le fonti figurative sentite come modelli di riferimento per lo stile ma anche riutilizzate con prelievi ricomposti in modo strumentale per la conquista del pubblico e per la soddisfazione delle aspettative del committente».
Luigi Garzi rappresenta il perfetto testimone dello spirito romano in pittura nel tardo Barocco. Non potrebbe essere altrimenti per un artista che nasce in città (e non a Pistoia come ancora comunemente si riporta in omaggio a una tradizione rivelatasi erronea), lì si forma e circoscrive l’orizzonte per il resto della vita. Come tutti i romani del suo tempo, ha sofferto molto la preponderanza storiografica di Carlo Maratti, che ancora attualmente – complice la mancanza di una monografia che liberi il campo da tradizioni attributive vecchie di secoli – tiene il campo e conserva per sé decine di quadri spettanti ad altri. I contributi nel volume indagano la personalità del Garzi sotto ogni aspetto, modellando il profilo di un uomo pienamente integrato nella sua epoca: le origini umane e lavorative (Guendalina Serafinelli, Francesco Gatta), le coordinate stilistiche e l’evoluzione (Stefan Albl, Francesco Grisolia), alcuni episodi significativi (Fabrizio Federici, Paolo Benassai, Mario Pavone, Alessandro Agresti), la posizione rilevante nel contesto dell’Accademia di san Luca (Stefania Ventra), le inattese ricadute internazionali della sua fortuna (Erich Schleier, Konrad Pyzel, Jana Zapletalova, Dario Beccarini).

È da un disegno – lo studio col Sacrificio di Numa Pompilio che da esordiente presentò al concorso di pittura dell’Accademia di San Luca – che prende avvio il catalogo del pittore. In quel foglio Garzi si segnala per la prima volta agli occhi dei maestri in veste di interprete di imponenti sovrastrutture culturali di derivazione classicista, guidato dall’esempio di Poussin nel bel comporre all’antica. Il campo in cui l’artista eccelle è però quello religioso. Le tavole con l’Immacolata Concezione per il Duomo di Massa (con la presenza risoluta e algida della Vergine Maria a monopolizzare gli sguardi degli altri personaggi) e con l’Assunzione della Vergine nella Cattedrale di Pescia segnano l’apice del suo talento narrativo nel formato della pala d’altare. I soffitti con il Matrimonio mistico di santa Caterina d’Alessandria nella chiesa di Santa Caterina a Formiello di Napoli e con la Gloria di Santa Caterina da Siena in Santa Caterina a Magnanapoli a Roma sono invece i suoi capolavori più scintillanti. Il paragone in funzione anticipatrice con i cieli sacri della Gloria di Santa Cecilia di Sebastiano Conca in Santa Cecilia in Trastevere è lampante.
Il lato più sorprendente che risalta tra le pagine del libro è certamente quello relativo agli esordi del pittore. Cominciò prestissimo forse per l’esigenza di superare certe ristrettezze familiari (un padre assente e una madre «cortigiana»), di cui i biografi antichi tacciono ma che lo scavo d’archivio e il volume suggeriscono. Ciò che più conta però è scoprire che l’avvio alla professione di uno dei campioni dell’accademismo pittorico, prima del salto di qualità insieme ad Andrea Sacchi, procedette al fianco di due misconosciuti fiamminghi, Vincent Adriaenssen di Anversa e l’altro paesaggista Salomon Backereel (al tempo italianizzato come Boccali o Baccali). Da loro Luigi imparò la pittura di dettaglio e così si abituò a coniugare il grande col minuto, una delle sue impronte personali. Sotto questa luce possiamo leggere in modo nuovo la frequenza con cui Garzi, in società con tanti pittori di fiori (tra questi Mario Nuzzi, Abraham Brueghel, Giovanni Paolo Castelli lo Spadino), elaborò duetti professionali che accostano figure a brani vegetali, e ugualmente i dettagli naturalistici di corredo alle scene storiche nelle sue creazioni autonome. Quei passaggi non sono allora solo di dettaglio, ma suonano come l’occasione con cui l’artista rievoca i suoi inizi; fanno emergere una soggettività artistica personale e sorprendente, un’interessante divergenza dalla convenzione che inevitabilmente amplia lo spettro della sua personalità.
La storiografia artistica ha colpevolmente trascurato personaggi come Luigi Garzi e la sua generazione, capaci sì di opere di buona levatura ma pur sempre testimoni di una società in recessione culturale che male resse il confronto con le generazioni precedenti, tanto da contribuire alla perdita di egemonia dell’Italia nell’orientamento del gusto europeo. Sul conto di questi artisti si è sedimentata la percezione che fossero sguarniti di qualsiasi merito storico, poco caratterizzati e quasi intercambiabili. Una scarsa considerazione che si è riverberata prima in un misto di disinteresse e di disprezzo e poi in un panorama di contributi ancora oggi frammentario e confinato a uno specialismo di settore che li relega a un ruolo secondario e subalterno. Ben vengano allora volumi come l’antologia di saggi su Luigi Garzi a dimostrare quanto possa essere proficuo uno studio che decifri una stagione culturale dimenticata e porti a uno stadio superiore le nostre conoscenze.